Vincenzo Nibali e Alex Schwazer sono, per certi versi, assimilabili. Se non si può, per indole, associare i due campioni, alla luce di quanto emerso nel recente periodo, si può di certo accostare gli sport praticati. Dalla marcia al ciclismo, il comune denominatore è la fatica. Quante volte, davanti al televisore, ci siamo interrogati sull'enorme sforzo compiuto da quegli atleti che, con andatura ciondolante, ginocchio bloccato e piede trasportato in un continuo, innaturale, movimento, compiono interminabili chilometri? Quante volte ci siamo appassionati nel seguire le imprese delle due ruote, lungo pendii mitici, tornanti che paiono gettarti indietro a ogni colpo di pedale?

Ecco, marcia e ciclismo piacciono forse per lo stesso motivo, perché portano i protagonisti al limite e portano chi osserva ad identificarsi col protagonista di turno. Schwazer, in passato, e Nibali, ora, rappresentano i massimi esponenti delle due discipline, acuiscono quindi i sentimenti di chi osserva oltremisura. Se è la parte di sudore e abnegazione che tanto piace, anche il male, il cancro, è il medesimo. Si chiama doping, qualunque sia la forma atta a vincere aggirando ciò che è lecito. 

Nibali e Schwazer sono oggi al centro di un polverone mediatico, con le ovvie differenze. Schwazer riemerge dal pianto pre-olimpico. Si barcamena prima in una storia crollata come castello di carta, osserva la carriera distrutta, per scegliere poi una via collaborativa. Parlare, per evitare un'ulteriore squalifica che prolunghi lo stop oltre gennaio 2016. Il sogno olimpico, la rivincita tecnica e morale a Rio, tutto passa dall'interrogatorio tenuto nei giorni scorsi. Un ulteriore fermo chiuderebbe ogni porta, allora tanto vale aprire il vaso della menzogna. Il doping vige in ogni ramo dell'atletica, questo è il responso. Non è solo Schwazer, non è solo la marcia. Non è un'operazione individuale, è un sistema collettivo che coinvolge atleti, tecnici e addetti ai lavori. Si parte dalle risposte del marciatore, da una serie di interrogatori fiume, per comporre il puzzle, per disegnare la realtà. 

Vincenzo Nibali si trova invece dall'altra parte della barricata. Il 2014 è l'anno della consacrazione, del Tour. Solo la Grand Boucle, solo la maglia gialla può iscriverti alll'altare della leggenda. Una sola corsa, nel ciclismo, ti pone tra gli immortali. Nibali parte dal Tour per sfidare il mondo, per confermarsi, eppure un sassolino, che tende di giorno in giorno a ingrossarsi, ferma gli ingranaggi della sua bicicletta. L'Astana cade, per la quarta volta in pochi mesi, nella trappola del doping. Casi individuali, ammissioni di colpa pronte. I fratelli Iglinsky nella squadra di prima fascia, due casi in quella Continental. Sberle allo sport pulito, pugni al torace di uno dei Team più ricchi e prestigiosi. Montanti alla credibilità di chi, di quel Team, è leader indiscusso. Le parole di Nibali "Sono convinto che questi casi agli occhi di molti rovinino l'immagine anche di corridori come me e Aru", risuonano come pietre. Da una parte l'assoluzione della squadra, dall'altra la paura di veder naufragare un progetto. Si corre sul filo dell'incertezza, tra il dire e il non dire, tra certezze e paure, è il doping, un male nascosto, nel ciclismo come altrove. "Quattro imbecilli che con me non c'entrano nulla", condannare è giusto, indagare ancora di più.