Vincenzo Nibali in piedi sui pedali. Ondeggia con eleganza tersicorea, risucchia l'asfalto sotto le ruote. Il Gran Premio della Montagna di Bardonecchia sembra una volata sul lungomare. Emozione. Alle sue spalle solo un 28enne in maglia fosforescente che in pochi conoscono. Il fiato è pesante, ma le gambe leggere. Mauro Santambrogio punta lo squalo: lo salta, chiude la zip per le foto e va a tagliare il traguardo a braccia alzate, con la benedizione della maglia rosa. Finzione.

Nel ciclismo di oggi il limite tra emozione e finzione percorre le stesse strade. Asciutte o innevate, asfaltate o sterrate. Un pignone spinto dalla forza del sudore, della fatica, dell'abnegazione. L'altro alimentato a sangue "corretto", ormoni, pillole miracolose. L'occhio del tifoso, sul divano o sul ciglio della strada, non sa e non può distinguere. Il risultato? Perfino il ciclista della domenica, che macina chilometri sperando di ridurre l'ombra della pancetta sul tubolare, ingoia sorsate di veleno ad ogni "dopato" che arriva dai finestrini delle macchine di passaggio.

Il doping sta ferendo a morte il ciclismo, e l'Uci non fa altro che tamponare i lembi dello squarcio. Squalifiche sommarie, procedimenti in contrasto con le federazioni nazionali (Spagna docet), corridori che si battono vigorosamente i pugni sul petto, ammettendo ai quattro venti le proprie colpe, e poi risaltano in sella, sperando di sfuggire di nuovo all'occhio dei controllori. La leggenda Armstrong crollata sotto i colpi di un'ammissione in diretta tv - talmente schietta da apparire paradossale - ha dato il via ad un processo inarrestabile di decadimento della credibilità del panorama ciclistico mondiale. A qualsiasi livello. Se si possono vincere sette Tour de France consecutivi, e far finta di niente per 15 anni, figurarsi se non si può vivere una giornata di gloria tra gli amatori e farla franca.

Mesi di allenamento ed il sacrificio fisico non possono lottare ad armi pari contro pochi minuti dalla parte del lato oscuro della scienza. Ed è proprio sotto questa terribile deresponsabilizzazione del singolo che il ciclismo sta morendo. Provate a guardare la processione di rabbia sulla pagina Facebook di Mauro Santambrogio:centinaia di fan in fila virtuale ad "omaggiare" un corridore, non di prima fascia, con messaggi di delusione ed insulti. Un gioco al massacro che si ripete con certezza matematica ad ogni episodio di doping, a testimoniare che quella dei tifosi delle due ruote è passione allo stato puro. Ma, come in tutte le storie d'amore, uno sbaglio - prima o poi - può portare allo strappo definitivo.

E cosa resterebbe di un ciclismo senza appassionati, in tv o sulle strade? Non basta tirare una riga su wikipedia ai successi ottenuti con l'aiutino, non basta squalificare e sperare che alla prossima occasione il gestaccio non si ripeta. E non basta, come qualcuno ripete tra il serio ed il provocatorio, legalizzare il doping. Il "se non puoi sconfiggerli unisciti a loro" è una disfatta mascherata. Danilo Di Luca e Mauro Santambrogio sono stati pizzicati per l'utilizzo della stessa sostanza (l'Epo), nella stessa squadra (la Vini Fantini), mentre si preparavano per la stessa competizione (il Giro). Impossibile non immaginare che sapessero l'uno dell'altro. Impossibile credere che non fossero consapevoli delle conseguenze del proprio gesto. Un paese tinto di rosa da Nord e Sud che si trasfigura nella grottesca metafora del Tiro d'Italia.

Il ciclismo è 99% gambe, 1% testa. Una tattica perfetta non può andare in porto in nessun modo, se il corpo non risponde a dovere agli stimoli. Quando la fatica regna sovrana al di sopra di tutte le altre doti, non si può concedere una seconda possibilità a chi, barando, snatura l'essenza della stessa. Se l'Uci ed i team non lo capiscono, è meglio abolire il ciclismo. Relegarlo a passatempo della domenica, a piacevole alternativa all'auto e ai mezzi pubblici, a supporto per la prova costume. La vita può dare una seconda possibilità a chi sbaglia. Lo sport, che di vita sa essere mirabile maestro, in alcuni casi deve permettersi il lusso di non concedere il perdono. Ed il ciclismo è uno di questi casi.

Nell'immediato futuro chi potrebbe dirsi ancora disposto ad investire tempo, fatica e soldi in un mondo i cui stessi controllori ammettono, di fatto, l'incapacità a gestirne la ragion d'essere? Non si può pretendere credibilità se non si offre tutela degli investitori di energie, passione e denaro. L'Uci dovrebbe smetterla di concedere seconde chance. Le squadre dovrebbero sottoscrivere un codice etico che obblighi a non assumere corridori coinvolti a qualsiasi titolo in situazioni di doping. Il ciclismo non è prossimo al bivio: c'è già dentro. E si sta dirigendo, pedalata dopo pedalata, verso la direzione sbagliata.