Dieci anni sono lunghi, ma a volte scorrono in un attimo. Succede quando ricordi, fissi nella mente immagini indelebili e le ripercorri così velocemente da riavvolgere in un attimo il nastro di una vita. Marco Pantani è morto solo, in una stanza di albergo, in preda a fantasmi e pensieri. Con la sua morte abbiamo perso tutti, perché se ne è andato l'uomo prima del ciclista. E tutti quel giorno abbiamo avvertito un senso di colpa nel profondo. Tutti avremmo voluto essere in quella stanza per fermarlo, magari parlargli, raccontargli cos'era per noi Marco Pantani. Eppure prima, quando forse ne aveva realmente bisogno, siamo rimasti in disparte, italiani fino in fondo.

 

Ora con il dolore negli occhi e nella mente non possiamo che ricordarlo, cancellando quel giorno con un colpo di spugna, rinfrescando nella memoria quel che Marco Pantani era in sella alla sua bici, nella sua casa. Carattere gioioso quello di Marco, ma con una parte oscura, introspettiva. Un artista maledetto, capace di momenti di estasi e attimi di silenzio inquietante. In sella era un Dio, in grado di ammaliare e sedurre, a contatto con se stesso un demone capace di autodistruggersi. La tragedia al culmine di una rappresentazione che non ha mai conosciuto toni minori. Una vita corsa, percorsa lungo il crinale del brivido, che fosse una tappa o la realtà quotidiana.

 

Marco Pantani era un poeta, uno degli ultimi, del ciclismo. Viveva nell'epoca delle radioline, delle ammiraglie, degli schemi e delle tattiche, ma si è sempre rifiutato di soggiogare il genio all'organizzazione. Il Pirata era improvvisazione, immaginazione, altruismo. Verso la gente, soprattutto. Nato per lo spettacolo, dello spettacolo faceva la sua forza. Non era bello Pantani, con quelle orecchie a sventola da Elefantino, ma in bicicletta diventava regale. La montagna era il suo habitat, le ascese la sua storia. I tornanti l'ispirazione verso la leggenda. Le cime mitiche del ciclismo oggi ricordano Marco il Pirata, scomparso troppo presto.

 

In Francia, al Tour, nella corsa più bella e mediatica del Mondo, hanno imparato ad amare Pantani. Lo chiamavano a modo loro, con quella “i” finale accentata, “Pantanì”, quasi a voler far loro un campione che era invece tutto nostro. A bordo strada o davanti al televisore era il sorriso del popolo. Quella bandana che ormai era un tutt'uno con l'atleta. Parlava poco Marco, ma era nei gesti, nelle smorfie che capivi il momento. Quando lanciava via il suo copricapo celebre, era l'attimo in cui infuriava la tempesta. Ha sconfitto varie volte la sorte, è ripartito, fino all'ultima fermata, la più dura, perché non domabile con un'impresa a due ruote.

 

Il Pantani ciclista è morto a Madonna di Campiglio, nel giorno dell'ematocrito fuori norma e delle polemiche e forse lì ha iniziato a cedere anche il Pantani uomo. Quello riapparso in seguito è stato un anelito, un sospiro profondo, un sole leggero che ha provato a insinuarsi tra le nubi. Eppure ancora emozionante. Al Tour, contro il baro Armstrong, sul Ventoux, con il rispetto che si deve a una corsa come quella transalpina, da gregario al Giro, perché Pantani era così, amava il ciclismo oltre i risultati. Ed era amato, perché al ciclismo dava tutto se stesso.

 

Forse troppo per la gente e poco per se stesso Marco. Capace di seminare ruote e avversari, fendere la pioggia, sconfiggere le Alpi e i Pirenei, ma incapace di domare la vita. Dieci anni e sembra ieri. I campioni come Pantani sono tali perché in grado di prescindere lo sport, sono grandi aldilà delle vittorie, si ergono a simboli, icone. Se vi chiedete perché il ciclismo non può morire, la risposta è Marco Pantani.

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Johnathan Scaffardi
Lo sport come ragione di vita, il giornalismo sportivo come sogno, leggere libri e scrivere i piaceri che mi concedo