Mancano poco più di dieci giorni alla partenza del Tour de France 2015, quest'anno in programma in terra olandese (Utrecht) in omaggio a sponsor e città straniere che si avvalgono del ritorno di immagine derivante dall'ospitare la più grande corsa a tappe al mondo. Sotto la canicola di luglio i migliori corridori in circolazione ogni anno si sfidano lungo un percorso di oltre tremila km durante tre settimane intensissime, in cui tutta l'attenzione mediatica si catalizza sulla Francia.

I transalpini sfoggiano tutto l'orgoglio - o lo sciovinismo se preferite - di cui dispongono per l'aver creato la Grand Boucle (il Grande Ricciolo) e averla fatta diventare una corsa che non ha paragone, quanto a interesse e tradizione, con nessuna delle altre gare a tappe europee. Anche il Giro d'Italia, nonostante il recente slogan rosa dichiari trattarsi della "corsa più dura al mondo nel Paese più bello del mondo", ha dovuto negli ultimi quindici anni cedere il passo alla centralità del Tour che, sia per la collocazione in calendario che per l'alone di leggenda che l'avvolge, è ormai l'obiettivo dichiarato di una stagione intera di molti fuoriclasse. Giro e Vuelta devono accontentarsi del ruolo di competizioni di preparazione, l'uno al medesimo Tour de France, l'altra ai Campionati Mondiali. 

Ma non è solo il calendario ad aver reso la Grand Boucle un vero e proprio marchio riconoscibile in tutto il mondo, un evento per il quale americani e australiani si ingegnano per esservi connessi. E' la tradizione, la pervicacia degli organizzatori ad aver fatto sì che il Tour de France diventasse un unicum nel panorama ciclistico internazionale. Un po' come Wimbledon per il tennis, la corsa gialla ha i suoi riti - a volte un po' stantii a dire il vero - che però risultano particolarmente affascinanti per tutti gli appassionati. La ripetitività del percorso, caratterizzato da un prologo di apertura, da una prima settimana generalmente piatta con tappe adatte ai velocisti (Anestesie General, la felice denominazione de L'Equipe per descrivere i primi sette giorni dell'edizione 2012), con un lento ma inesorabile avvicinamento alle Alpi o ai Pirenei, da affrontare in senso inverso ogni anno, dalla tipica cronometro da trenta e più chilometri prevista per agevolare i passisti, senza dimenticare la passerella dei Campi Elisi, è elemento che, lungi dal rappresentare un mero fattore di noia, tende piuttoso a perpetuare una tradizione che sta rendendo ancor più importante il Tour nell'ambiente ciclistico internazionale.

Anche le mitiche montagne della Grand Boucle, che vengono scalate con costanza ciclica, se non annuale, contribuiscono ad accentuare i caratteri tipici della grandeur francese. L'Alpe d'Huez, il Galibier, il Mont Ventoux sulle Alpi, il Tourmalet, l'Aubisque e il Port de Balès sui Pirenei sono tutti appuntamenti imperdibili per i tifosi, vette ormai leggendarie sulle quali ogni grande corridore vorrebbe mettere la propria firma. Il consolidamento del Tour de France non sembra risentire nemmeno dei tanti episodi di doping verificatisi nel corso degli anni, al punto che la cancellazione con un tratto di penna dei sette titoli consecutivi di Lance Armstrong (1999-2005, tutte edizioni senza un vincitore) non ha provocato scompensi particolari, con appassionati e media pronti ogni luglio a riempire le strade francesi.

In un'ottica globale, il ruolo delle immagine televisive ha assunto via via carattere decisivo, oltre che peculiare. La qualità della produzione del Tour de France è - non si fa fatica ad ammetterlo - infinitamente superiore a quella proposta al Giro e alla Vuelta. Se a ciò aggiungiamo che ormai ci sono corridori (come quest'anno Froome e Quintana) che fanno della maglia gialla l'obiettivo non solo di una stagione, bensì di un'intera vita ciclistica, snobbando le classiche del Nord e gli altri grandi giri, allora è facile rendersi conto di come tutta l'annata su strada faccia perno su quelle tre settimane di luglio, nel corso delle quali una carriera può svoltare per sempre e diventare leggenda.