Vincenzo Nibali non vincerà il Tour de France 2015 e a meno di clamorose imprese non riuscirà neppure a salire sul podio.
Fallimento? Probabilmente sì. In Italia siamo abituati a fornire sentenze definitive, come se non esistessero le sfumature. Il passaggio da eroe nazionale a bersaglio delle critiche più gratuite è immediato.
L'esercizio della memoria è un fondamentale che appartiene a pochi, soprattutto nel mondo dello sport. L'ossessione per la vittoria rende tutto più fragile e fugace: il trionfo e i podi alla Vuelta e al Giro, i tentativi eroici alla Liegi e alla Sanremo, l'impresa sul pavè, le quattro tappe vinte al Tour e la maglia gialla di Parigi. Tutto dimenticato o quasi.
Ma cosa ancora più importante, è stato rimosso l'orgoglio ritrovato dagli appassionati di ciclismo italiani. Quella sensazione che scatta quando un connazionale lotta per un traguardo prestigioso come la vittoria di un Tour de France.
Nell'era post Pantani, l'unico italiano ad aver trionfato in una grande corsa a tappe che non sia il Giro d'Italia è stato Vincenzo Nibali.
Un successo al Tour e uno alla Vuelta, impreziositi anche da un secondo posto nella corsa spagnola e da un terzo alla Grande Boucle.
Tra i corridori azzurri solo Ivan Basso, dal 1999 ad oggi, è riuscito nell'impresa di salire sul podio del Tour.
 

Ecco perché Vincenzo Nibali rappresenta a tutti gli effetti il ciclismo italiano. Negli ultimi anni il movimento nostrano ha offerto poco allo scenario internazionale e lo dimostrano gli scarsi risultati ottenuti nelle grandi classiche, corse dominate negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, per poi diventare terreno fertile di altre nazioni.
Il siciliano ha restituito speranza ai disillusi, orgoglio agli indifferenti, luce ad un movimento spento.
Non possiede la "frullata" di Froome, la frustata di Contador, la leggerezza di Quintana, lo spunto veloce di Valverde o l'esplosività di Rodriguez. Nibali è un corridore che ha saputo lavorare sui suoi limiti, sfruttando la sua più grande dote: l'umiltà.
Una qualità che lo porta sempre e comunque a dire la verità e a non cercare attenuanti, come in questo Tour de France.
Non si è rifugiato dietro un ventaglio sfortunato, una squadra meno forte di quelle dei concorrenti e soprattutto dietro ad una caduta che gli ha provocato degli scompensi nel suo modo di stare in bici.
Sono tutti inconvenienti del mestiere e questo Nibali lo sa.
"Non sono neppure il fratello di quello dello scorso anno" ha dichiarato. Molti sostengono che senza le cadute di Contador e Froome, l'atleta azzurro non avrebbe vinto neppure la scorsa edizione della Grande Boucle.
Forse esiste una parte di verità in questa affermazione, ma non c'è alcuna controprova né certezza a riguardo.
 

Di questi giorni difficili per Nibali, resta solo l'amarezza per la memoria corta e per la mancata lucidità nell'analisi di molti.
Non ci si è concentrati sulla preparazione forse troppo dura e sui cambiamenti di programmi ad inizio stagione, con l'annesso tentativo (fallito) di far bene nelle classiche delle Ardenne; è stato più facile mettere in discussione il valore assoluto di un atleta che rimane, insieme ad Alberto Contador, l'unico corridore in attività ad aver vinto tutte e tre le grandi corse a tappe.
Forse questo non basta per salvare una crisi sui Pirenei ed un'annata storta, storicamente e statisticamente inevitabile in uno sport di resistenza come il ciclismo. I grandi campioni del passato potrebbero testimoniare a riguardo.
Perché sì, non avrà il talento naturale dei grandissimi di sempre, ma Vincenzo Nibali è senza se e senza ma un fuoriclasse. Lo è per le capacità di recupero, per le doti di resistenza, per il modo di guidare la bici, per la sua fantasia e la sua umiltà.
Sono doti che non si insegnano e che lo rendono allo stato attuale la massima espressione del ciclismo italiano nell'era post Pantani.