Ormai sta diventando un'abitudine consolidata. E' un vero e proprio tiro al bersaglio quello messo in scena contro Peter Sagan praticamente in ogni dopotappa delle frazioni del Tour de France 2015. Zero vittorie all'attivo, cinque secondi posti e svariati piazzamenti nella top ten hanno acceso gli animi di commentatori e appassionati, lestissimi nello scagliarsi contro il corridore slovacco, reo di aver raccolto poco o nulla in quest'edizione della Grand Boucle.

Ha abituato tutti troppo bene, Sagan. Vincitore di quattro tappe nella corsa gialla nel biennio 2012-2013, non gli viene ora perdonato di essere (ancora) a secco al Tour quest'anno, nonostante gli otto successi in stagione e un'incredibile capacità di andare forte su tutti i terreni. "Non sa più vincere" l'espressione gettonatissima in voga su social, quotidiani sportivi, blog, siti web ecc. A venticinque anni Sagan è già nell'occhio del ciclone, trattato quasi da atleta in parabola discendente, corridore tatticamente sciagurato, a volte troppo generoso e altre troppo timido. Di critiche del genere se ne son sentite in abbondanza anche in altre annate, ma l'accanimento di questo Tour de France è pari solo al picco delle temperature roventi dell'estate meteorologica.

Innanzitutto, c'è da sfatare un luogo comune sulle volate dello slovacco. Sagan non è - e non lo è mai stato - un velocista puro, in grado di raggiungere punte di velocità come quelle di Greipel o Cavendish. Il fatto che in passato abbia vinto sprint di gruppo anche al Tour de France e alla Vuelta costituisce solo una nota di merito per il corridore della Saxo-Tinkoff, non certo un antecedente storico da rinfacciargli ogni volta si piazzi secondo o terzo. Sagan fa tutto da solo, non ha una squadra che lo piloti in alcun modo o che gli sia completamente al servizio (l'obiettivo principale del suo team è curare la classifica generale con Alberto Contador). Lo slovacco va in fuga da solo, in compagnia, offre spettacolo in discesa, si difende alla grandissima in salita, ha praticamente ipotecato un'altra maglia verde da indossare sul podio di Parigi. Ma evidentemente ciò non basta a presunti addetti ai lavori e ad haters di nuovo conio, cui non pare vero di potersi allineare alla diffusa pratica di esaltare un personaggio sportivo - non necessariamente un corridore - per poi ributtarlo nella polvere mediatica delle critiche e delle polemiche.

Troppe le tappe perse - o meglio, non vinte - all'esito delle fughe, si dice. Altro equivoco, o luogo comune se preferite. Sull'arrivo infernale di Mende, dove anche corridori di classifica hanno finito per leccarsi le ferite derivanti da uno strappo così duro, cos'altro avrebbe dovuto fare lo slovacco se non salire del suo passo, ben consapevole di non essere uno scalatore? E ancora, nella tappa di Gap, dopo aver risposto agli scatti di tutti i suoi compagni di fuga, gli si può forse rimproverare di non essere andato dietro anche all'allungo di Plaza Molina? Più semplicemente il buon Peter si è reso conto di non poter recuperare ogni volta sulle accelerazioni degli avversari ed è andato su con il suo ritmo, senza ottenere un cambio che fosse uno. In discesa ha dato spettacolo, da vero funambolo della bici qual è, disegnando traiettorie concesse solo a due-tre eletti del ciclismo, recuperando 30 secondi di svantaggio in meno di dieci chilometri di picchiata.

Eppure si continua a insistere. Non vince più. Ma non è vero. Non ha (ancora) vinto al Tour ma ha già mostrato meraviglie alla Tirreno-Adriatico, al Giro di California e a quello di Svizzera. Sì, perchè il nostro corre da marzo ad ottobre, classiche e grandi Giri non fa differenza. Ovunque sia è sempre protagonista, vero fenomeno buono per tutte le stagioni, esemplare unico in un ciclismo in cui la specializzazione ha ormai preso il sopravvento su ogni altra qualità. Di fronte alle bordate piovutegli addosso negli ultimi giorni Peter sembra far spallucce, consapevole del talento e della sua forza, pronto a smentire i troppi soloni che lo vorrebbero in precoce declino.