Nella sua ultima apparizione televisiva da Commissioner NBA al David Letterman’s Show, David Stern ha elencato le 10 cose che ha imparato in oltre 30 anni di NBA. Tra queste, alla posizione numero due, Stern recita: “Sono fonte d’ispirazione per tutti quei ragazzini bassi e non molto atletici”. Centrato il punto. Il Commissioner più longevo di sempre ha rivoluzionato il mondo NBA senza mai calcare un campo di gioco. Questa è la storia di come un ragazzo laureato in giurisprudenza sia riuscito a cambiare uno sport che in America ha perso consensi e spazi pubblicitari, stagnato nei continui problemi di droga a cui andavano incontro i giocatori dell’NBA prima dell’arrivo di Stern (Nei primi mesi da commissioner di Stern, il Los Angeles Times pubblicò un’inchiesta secondo cui il 75% dei giocatori della Lega abusavano di droga) per poi rilanciarsi e diventare un icona globale.

Partiamo dal principio, dal 1° febbraio 1984, cioè quando David Stern incomincia a recitare un ruolo da protagonista negli uffici che affacciano sulla Fifth Avenue, sulla sua nuova poltrona, dopo aver scalato in pochi anni tutte le posizioni di comando del mondo NBA.
Stern si trova per le mani un prodotto fallimentare, a cui il pubblico non riesce ad affezionarsi perché non vi trova alcuna traccia di limpidezza, con le partite macchiate indelebilmente da risse, gioco violento e soprattutto problemi fuori dal campo, tra cui gli abusi di sostanze stupefacenti da parte dei giocatori già citati qualche riga sopra.
Basti pensare che le Finals dell’anno prima non erano state neanche trasmesse live dalle tv Nazionali, che avevano preferito mandarle in differita, visto il poco appeal di pubblico.
Eppure il 1984, voglia il cielo, si assiste a una doppia rivoluzione: un uomo che viveva proiettato nel futuro dietro la scrivania e poi un draft leggendario, che vede l’arrivo in NBA di giocatori come Hakeem Olajuwon, Michael Jordan, Charles Barkley e John Stockton, che segneranno i due decenni successivi di quella che diventerà una delle Leghe più importanti d’America.
E se sul campo di gioco le cose incominciano ad andare a gonfie vele, Stern decide di aggiustare i conti anche dal punto di vista finanziario, ponendosi come obiettivo quello di sanare i conti delle franchigie: stipula un contratto con la CBS e poi la NBC, riportando quindi la NBA in prime time sulle tv nazionali, facendo entrare denaro fresco nelle tasche dei roster. Poi, a seguito di riunioni storiche, vara una nuova linea economica: il salary cup. Un sistema di amministrazione finanziario che non permette troppe disparità economiche tra le squadre, e che verrà spesso imitato, senza mai ottenere però lo stesso impatto che ha avuto sulla NBA.
Stern, una volta stabilizzata la situazione salariale delle squadre, decide di aumentare il numero di esse: nel 1989 è quindi giunto il tempo di pallacanestro anche a Miami e a Minnesota, e nel 1990 sarà la volta di Charlotte e Orlando.
Stern però non si ferma qui, ma decide di espandere il marchio ben oltre l’America. La data storica è quella del 23 giugno 1989 e il protagonista è il lituano Sharunas Marciulonis: fu il primo europeo a firmare un contratto per una franchigia d’oltreoceano, sbarcando così ai Golden State Warriors. Non molto tempo dopo arrivarono in NBA molti altri europei, tra cui anche un certo Drazen Petrovic. Ma questa è un’altra storia.
Il racconto di Stern passa poi inevitabilmente per Barcelona 1992, quando portò alle Olimpiadi la prima formazione completamente professionistica di pallacanestro. Quel team è leggendario, con Magic Johnson, Larry Bird e Michael Jordan al comando fino ad arrivare ai nostri giorni, quando ormai il logo della Lega si è espanso in tutto il mondo, grazie a tournée estive, partite di esibizione e iniziative come NBA CARES, oltre allo spettacolo che ogni notte i giocatori ci regalano. D’altronde le ferree regole di Stern miravano a questo, a rendere più spettacolare il gioco. In questo senso va letta la “Hand Check”, in sostanza il divieto delle mani addosso del difensore. Le partite sono spesso diventate un inno al gioco d’attacco, reso elettrizzante dalle clamorose capacità balistiche di mostri come LeBron James o Carmelo Anthony (Ah, la classe del 2003, che altro grande draft Mr. Stern) che fanno de “palla in mano e succeda quel che deve succedere” un dogma di vita.
Non sono state sempre rose e fiori, intendiamoci. Momenti come il draft 1985, che secondo l’opinione comune fu truccato in modo tale da far finire Patrick Ewing ai New York Knicks per incrementare i ricavi, o l’annullamento della trade che avrebbe portato all’arrivo di Chris Paul a Los Angeles sponda Lakers, sono stati punti critici della sua gestione.
Eppure i numeri quantificano il grande lavoro svolto, che ha trasformato totalmente il mondo NBA: basti pensare che negli anni ottanta per comprare una franchigia NBA si dovevano spendere circa una quindicina di milioni di dollari, mentre oggi si dovrebbero investire come minimo cinquecento milioni di presidenti spirati.
E così, dopo 30 anni, il susseguirsi di ben 7 presidenti degli Stati Uniti, di migliaia di giocatori e di una quantità infinita di storie da raccontare, un altro tassello dell’NBA dei nostri padri ci lascia. Ecco cosa può fare un piccolo (e non molto atletico) David Stern.