Siamo nel cuore della notte italiana del 30 Aprile 2009 quando, dall’altra parte del mondo, un urlo fa esplodere lo United Center di Chicago. E’ in corso gara 6 del primo turno dei playoff della Eastern Conference, in casa dei Bulls ci sono i Boston Celtics. E’ una partita tirata, così come tutta la serie che a tratti sfiora il leggendario, e manca meno di un minuto alla fine del terzo overtime, con il risultato impattato sul 123 pari. Rajon Rondo ha la palla in mano dopo aver catturato un rimbalzo, supera la metà campo e la cede a Glen Davis, che entra in post e poi affida l’arancia all’accorrente Paul Pierce, bloccando inoltre il suo difensore, John Salmons. Pierce è solo e prova la penetrazione ma poi decide per lo scarico verso il compagno all’angolo. Mentre la palla è in volo, irrompe sulla scena Joakim Noah che, di prepotenza, intercetta il passaggio e parte in contropiede, con un ball-handing tanto sgraziato quanto efficace. Arrivato dall’altro lato del campo, aggredisce il ferro e schiaccia per due punti importantissimi, con in dote un tiro libero supplementare grazie al sesto fallo di Pierce, che invano ha tentato di fermarlo nella sua fase ascensionale. Una volta atterrato, Noah esplode in un urlo che sprigiona una grinta tale da far tremare i muri del palazzetto, un grido di battaglia che esagita ancor di più i tifosi presenti, un ululato ai compagni per incitarli a resistere, ché il traguardo è lì a pochi passi.

It’s all about passion. Per Noah d’altronde è sempre stato così, sin da quando ha messo piede nella Lega, tanto da litigare, nel suo anno da rookie, con Ben Wallace poiché quest’ultimo non seguiva con attenzione lo svolgimento della partita contro Orlando, preferendo ridere e scherzare con altri compagni. O, sempre nei suoi primi mesi in NBA, ad essere sospeso per due partite poiché aveva messo in dubbio la bontà degli schemi offensivi della squadra, discutendone con un assistant coach. Perché per Joakim la squadra è tutto, l’unica cosa che conta, e così si rifiuta di godere di soddisfazioni personali come la convocazione per l’ASG o l’MVP, anche perché “a Chicago c’è un solo MVP, che ora è infortunato: Rose”. Jo vuole solo l’anello. D’altronde, per un giocatore che è da quando è al liceo che continua a migliorarsi, pretendere il massimo da ogni stagione non è che la semplice conseguenza. Sì perché Noah non è certamente uno di quei giocatori che possono essere definiti come dotati di una tecnica sopraffina, anzi, tutto il contrario: quante sono state -e sono ancora- le diffidenze nei confronti del suo tiro a spirale? “Se ha funzionato fino a qui, non vedo un motivo per cambiarlo”, risponde il diretto interessato, testardo fino all’inverosimile, convinto dei propri mezzi ma soprattutto dell’etica del lavoro che l’ha accompagnato fin qui. Quel che non si può mettere in dubbio del figlio del pittoresco Yannick è l’apporto che riesce a dare in fase difensiva, quell’intensità unica che -accompagnata dal miglioramento delle percentuali dal campo- lo rende ad oggi uno dei centri più forti della Lega. Sono due anni che al prodotto della Florida è stato assegnato un nuovo ruolo, quello di leader. In assenza di DR1, è lui l’uomo che i compagni cercano, quello da cui ci si aspetta sempre qualcosa in più. L’anno scorso a tratti la stagione dei Bulls è stata commovente, come quando ai playoff si sono ritrovati in alcune partite con le rotazioni ridotte a praticamente 7 uomini, ma che li ha visti uscire vincitori da una gara-7 al Barclays Center contro i più quotati Nets, in cui Noah è stato semplicemente ovunque, mostrando una fame di vittorie ai confini del Jordanesco.

​Quest’anno, partiti con ambizioni da titolo, si sono visti abbattere ancora una volta dal nuovo infortunio occorso a Rose, a cui è seguita la trade di Deng, che per Jo era come un fratello. Si pensava a una stagione tramutatasi da cigno a brutto anatroccolo per Chicago, e Noah si è chiuso in se stesso per due -eterne- settimane, in cui non ha proferito parola verso i media o i tifosi. Poi è esploso: “Sento di alcuni tifosi che vogliono vederci perdere per avere una scelta alta al prossimo draft. Bé, se vuoi vedere la tua squadra perdere, non sei un vero tifoso”. E’ stata una dichiarazione di guerra, un urlo simile a quello lanciato in gara-6 contro Boston, carico di rivincita e rabbia, tantissima rabbia per una sfortuna che sembra perseguitare i Bulls. Ma Noah è convinto e quando glielo si chiede afferma: “Abbiamo quanto basta per vincere”. E se lo dice lui c’è da crederci. Quando sul pino si ha Tom Thibodeau, tutto è più semplice. Un coach che nel 2008 ha imbrigliato i Lakers organizzando la difesa dei Celtics nelle Finals, che al primo anno da head coach ha vinto il premio come miglior allenatore dell’anno e che ha riportato una mentalità vincente in una franchigia che dopo Michael Jordan si era abbandonata alla mediocrità. Quella in cui non si vuole più ricadere, e i numeri di Noah nel 2014 ne sono una prova: 3 triple doppie, una presenza costante in ogni parte del campo, un’intensità ai limiti dell’incredibile, un QI cestistico che è stato allevato per anni e che ora semina i propri frutti, tramutandosi in assist (è il secondo passatore della squadra, dietro al redivivo DJ Augustin, un’altra scommessa vinta di Thibs) e che ne fanno il miglior centro assist-man dai tempi di David Robinson.

Noah nei momenti che contano non si è mai tirato indietro: lo sa Greg Oden, contro cui Jo si è sfidato nelle finali NCAA e che ha visto il nostro trionfare sul diretto avversario, vincendo il torneo NCAA per il secondo anno consecutivo e conquistando anche il premio di MVP delle finali. Lo sa Kendrick Perkins, animale da rimbalzo contro cui nel 2008 -al secondo anno nella Lega- Noah si è scatenato nella serie di playoff di cui sopra, e che l’ha visto terminare con delle medie spaventose da doppia doppia: 10,1 PPG e 13,1 RPG. Lo sanno i Brooklyn Nets, sconfitti l’anno scorso in gara-7 al Barclays Center da quest’omone che soffriva di un infortunio come la flascite plantare, ma che si lanciava a rimbalzo come se ne dipendesse della sua vita (e un po’ così è, secondo la sua mentalità). Lo sa Kareem Abdul Jabbar, con cui Jo passa le estati a praticare yoga e a confrontarsi, lo sa Laird Hamilton, campione di surf che a 50 anni è ancora -letteralmente- sulla cresta dell’onda, a cui Noah deve l’apprendimento di alcune tecniche di allenamento per far rendere meglio il proprio corpo e la respirazione per cui riesce a rendere di più sul parquet, incrementando il numero di minuti in cui riesce a portare la sua intensità in campo, a disposizione della squadra. Noah sta diventando un’icona per questa franchigia, un simbolo di appartenenza, l’orgoglio di una città di basket che trova la forza di affrontare un’altra stagione senza il miglior uomo grazie alla grinta che ogni sera Noah e compagni mettono in campo. L’essenza pura di Noah la svela Taj Gibson, citando la frase che è solito ripetere nello spogliatoio prima delle partite, che rivela quanto è intrisa nel corpo del capellone franco-svedese la voglia di vincere: “Sei disposto a morire per tutto questo? Giocarti tutto quello che hai per aiutare la tua squadra a diventare qualcosa di grande?”. La risposta, come vuole la leggenda, diventa ogni partita più rabbiosa, più convinta. In fondo la ricetta vincente è tutta qui, celata in queste piccole cose, come l’accettare il cambio su un piccolo nei pick’n roll, l’estirpare un rimbalzo dalle mani avversarie e conquistarsi passo dopo passo la vittoria, per poi festeggiarla con un pugno alzato, liberando un grido verso cielo, come e più che negli ultimi secondi della partita contro Boston. It’s all in Joakim Noah.

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Marco  Lo Prato
17 anni e non sentirli.