Esistono franchigie che, per una ragione o per un’altra, attirano su di sé antipatie più o meno motivabili, e franchigie che, per un motivo o per un altro, godono invece di un’innata simpatia. I New York Knicks, nobile decaduta in attesa di risalire le vette sulle quali Walt Frazier e Willis Reed l’avevano issata nei primi anni ’70, appartengono senza ombra di dubbio alla seconda categoria: vuoi per la manifesta schizofrenia di certe recenti scelte dirigenziali (chi ha detto Isaiah Thomas?), vuoi per gli esiti del tutto innocui che sempre seguono le più bellicose ambizioni di giocatori e allenatori, alla più ricca e prestigiosa franchigia della Grande Mela da qualche tempo s’accompagnano i sorrisi beffardi di tifosi e addetti ai lavori estranei all’ambiente isolano, ben consapevoli dello status velleitario di pretender che da troppo tempo ormai si associa ai colori arancio-azzurri.

COACH ZEN - Per riportare calma e raziocinio forse davvero non c’era alternativa ad un pastore leggendario, adornato d’un’aura quasi mitologica da Signore degli Anelli - una guida psicologica prim’ancora che concettuale, che dovrà destreggiarsi sul filo sottile che separa la più assoluta autonomia operativa, figlia del credito guadagnato con una carriera quasi ineguagliabile, dalla cecità dittatoriale di un padre-padrone factotum. I New York Knicks sono la grande occasione di Phil Jackson e Phil Jackson è la grande occasione dei New York Knicks: il primo non vedeva l’ora di vedersi affidati i gradi di President of basketball operations, già negatigli prima dai Los Angeles Lakers in una (sotto)specie di lotta intestina (la sua compagna è Jeanie Buss, figlia del compianto owner Jerry Buss e sorella dell’erede designato Jim) poi dai Detroit Pistons, ai quali si era proposto come consulente esterno evidentemente come cavallo di troia per ulteriori (e magari istantanei) avanzamenti di carriera; i secondi, carnefici di loro stessi e di pressioni mediatiche paragonabili forse soltanto a quelle della piazza losangelina, non aspettavano altro che “nascondersi” sotto la sottana di una figura al limite dell’attaccabile, capace di fungere da parafulmine e allo stesso tempo da faro per l’ennesima ricostruzione tecnica e l’ennesimo riassetto societario.

BREAKING POINT - L’arrivo di Coach Zen nella Grande Mela è di gran lunga l’unica notizia di rilievo della stagione 2013/2014 dei New York Knicks, poco meno di un film dell’orrore che non vale nemmeno la pena di riepilogare, un po’ per non urtare la sensibilità ferita dei tifosi newyorkesi, un po’ per non dilungarsi entro un argomento del tutto privo di contenuti interessanti. Eppure, nonostante i tragicomici verdetti emessi dal parquet - dalla totale inconsistenza di un JR Smith precipitato ai minimi storici in termini di gradimento pubblico, al manifesto fallimento del principale innesto estivo, quell’Andrea Bargnani ormai perennemente in infermeria - proprio l’approdo del Re del Montana sotto la Statua della Libertà offre prospettive e soprattutto speranze che, anche in virtù di risultati sportivi di maggior spessore, con ogni probabilità non si sarebbero palesate. E’ chiaro che servirà tempo, ma i ai tifosi newyorkesi la pazienza non è mai mancata, un po’ per costrizione e un po’ per costituzione: tifare Knicks non è certo una missione impossibile come nel caso di altre franchigie minori, evidentemente penalizzate da un regolamento sì più rigido, finalmente, ma che ancora oggi premia i rich market(s), eppure di sicuro è una sfida notevole, specialmente in fatto di tenuta nervosa. Anche per questa ragione, meglio quindi un punto di rottura e conseguentemente una rivoluzione totale piuttosto che continuare a veleggiare nella mediocrità di comparsate ai Playoff e finti colpi di mercato (chi ha detto Amar’e Stoudemire?): anima in pace, buoni propositi e tanta fede per una platea genuina che il famoso bandwagoning lo cerca ancora sul dizionario.

CAMBIO DI ROTTA - D’altronde Phil Jackson non ci ha messo molto a svelare i suoi propositi e, contestualmente, dare il là all’ennesimo rebuilding newyorkese. Per primi sono partiti alla volta di Dallas Tyson Chandler e Raymond Felton, il primo in copia strappata e sdrucita dell’àncora difensiva che aveva trascinato i Mavericks (sua prossima destinazione, appunto) all’insperato titolo 2011, il secondo piagato da acciacchi e crisi umorali ed ormai completamente inviso all’esigente platea del Madison Square Garden: al loro posto sono arrivati il centro haitiano Samuel Dalembert, poco più di un filler in scadenza di contratto, e soprattutto il playmaker iberico Josè Calderon. Quest’ultimo, noto per le raffinate geometrie e la sublime qualità di passaggio tanto quanto per la nullità difensiva (non che manchi d’intenzione, semplicemente tutta colpa di un’ingenerosa Madre Natura), sarà chiamato ad edificare in campo il progetto tattico che il nuovo allenatore dei New York Knicks, lo sponsorizzato/raccomandato/uomo di fiducia di Phil Jackson Derek Fisher, cercherà di instillare nel ritrovato roster arancio-azzurro, ovvero la famigerata Triple-Post Offense, l'Attacco a triangolo. Come si suol dire in questi casi, comunque vada sarà un successo, perché per quanto l’ex Venerabile Maestro dei Los Angeles Lakers possa conoscere approfonditamente quello specifico sistema di gioco, si sta pur sempre parlando di un esordiente assoluto su una panchina di pallacanestro (non necessariamente NBA) alle prese col più delicato e complicato complesso tecnico-tattico della pallacanestro moderna, peraltro da inculcare ad una classe di studenti non esattamente rinomati per dedizione e abnegazione, per così dire.

LEAVING NY NEVER EASY - Tra questi, però, ci sarà ancora Carmelo Anthony. La telenovela estiva del #7, che avrebbe potuto trasformarsi in uno psicodramma collettivo ove avesse avuto esito diverso, si è risolta nel finale forse più scontato, sicuramente meno entusiasmante, paradossalmente il più ovvio: la permanenza (a vita) nella Grande Mela, naturalmente sponda Manhattan. Razionalmente, mettendo a bilancio lo stato tecnico-tattico in cui versa il malcapitato roster dei New York Knicks, la carriera finora ingloriosa dell’ex stella #15 dei Denver Nuggets e le prospettive di carriera non più lontane (nel tempo) né particolarmente rosee (nei contenuti), i Chicago Bulls costituivano l’opzione più logica: una franchigia nobile, un roster ricco ed intrigante, un allenatore orientato alla (strenua) difesa e bisognoso di un go-to-guy talentuoso e creativo quale Tom Thibodeau, un leader carismatico nonché pilastro difensivo come Joakim Noah, per non parlare dell’attrazione provocata dal secondo ritorno di Derrick Rose – tutto ciò, però, non è bastato. Quando più franchigie si propongono ad un costless-agent di così alta caratura, e quest’ultimo completa il tour dei pitch senza rilasciare (giustamente) alcuna dichiarazione, dedurre una potenziale graduatoria è sostanzialmente impossibile, a meno che non ci si (af)fidi delle ipotesi più o meno strampalate dei media d’oltreoceano: esercizio sterile. Chicago Bulls, Houston Rockets, Dallas Mavericks, Los Angeles Lakers: tutte “beffate” dai New York Knicks. O, più cinicamente, dagli oltre 30 milioni di dollari (in 5 anni invece di 4) che quest’ultimi potevano mettere sul tavolo in più rispetto a qualunque altra pretendente. Non ci permettiamo di dubitare della bontà e della franchezza dell’uomo, prim’ancora che del giocatore, dunque vogliamo credere al fatto che fosse nell’interesse strettamente familiare restare nella Grande Mela, vogliamo credere al fatto che sia rimasto folgorato ed irretito dal fascino mistico di Coach Zen al punto da maturare in sé una devozione e una fede cieca nelle sue (finora inesplorate) capacità manageriali, vogliamo credere al fatto che per lui abbia ancora valore sentimentale e storico il concetto di bandiera, al punto tale da anteporlo all’opportunità professionale, anche sacrificando la propria eredità cestistica (in termini di bacheca). In questo senso, però, se mai dovesse capitargli di chiudere la carriera a mani vuote, magari anche senza partecipazioni alle Finals, non sarà più possibile esentarlo da qualunque responsabilità, poiché la possibilità di scegliere l’ultima squadra della propria carriera (ad alti livelli), l’occasione di competere per i massimi obiettivi a partire da subito, si sono presentate nelle mentite spoglie dei Chicago Bulls in prima battuta e dei Dallas Mavericks immediatamente in seconda, ed è stato lui, per qualunque ragione abbia ritenuto valida e opportuna, a rifiutarle. Non si legga questa considerazione come un capo d’imputazione ai suoi danni, più semplicemente gli si riconosca di non poter ambire alla botte piena (portafoglio ricco ed eterna fedeltà ai New York Knicks) e la moglie ubriaca (compassione e sentenza di assoluta innocenza di fronte ad una legacy senza allori): a meno di miracoli gestionali ad opera del divinizzato Phil Jackson, a scegliere è stato lui, consapevolmente, in prima persona.

WAITING FOR - Al momento, infatti, i New York Knicks sono quanto di più lontano si possa trovare dal sottile concetto di contender. Beninteso: non quanto i Philadelphia 76ers, scientificamente imbarazzanti e quasi insultanti nei confronti della competizione sportiva, ma poco di meno. Il quintetto titolare, per quanto ancora fluttuante nella mente acerba di The Fish, dovrebbe comprendere, oltre all’imprescindibile Josè Calderon, al succitato Samuel Dalembert ed ovviamente capitan Melo, JR Smith in qualità di guardia titolare e Andrea Bargnani nel ruolo di ala grande, in ballottaggio con le ginocchia ormai sbriciolate di Amar’e Stoudemire. Quest’ultimo, d’altronde, potrebbe essere il leader emotivo della second unit, al momento del tutto impronosticabile in ciascuno dei 4 slot rimanenti: il quarantenne argentino Pablo Prigioni ed il neo-arrivato Shane Larkin si contendono lo spot di seconda PG, così come l’enigma irrisolto che risponde al nome di Iman Shumpert è sfidato dall’energia travolgente del sophomore Tim Hardaway Jr., unica nota lieta della scorsa disastrosa stagione ma ancora grezzo e troppo istintivo; la rotazione dei lunghi si completa poi con l’ex New Orleans Pelicans Jason Smith, 7 piedi di QI discreto e trattamento di palla più che decoroso, il quale, ove recuperasse una condizione fisica accettabile, potrebbe persino competere per il ruolo di centro titolare, in un sistema cerebrale e intellettuale come la TPO. La possibile sorpresa potrebbe essere invece il rookie Cleanthony Early, chiamata numero 34 allo scorso NBA draft 2014, del quale si dice un gran bene e sul quale la dirigenza newyorkese ha scelto giustamente di investire fortemente.

Del resto, la situazione contrattuale di numerosi interpreti testimonia plasticamente come la prossima stagione sarà esclusivamente di transizione e dovrà essere capitalizzata offrendo spazio e minuti ai più giovani, affinché possano velocizzare il proprio percorso di crescita e apprendere quanto prima i principi fondamentale del nuovo metodo tattico. Dopodiché l’estate prossima, con i soli Carmelo Anthony e Josè Calderon a libro paga, Phil Jackson potrà far valere il peso specifico della propria prestigiosa figura per avviare una campagna di rafforzamento aggressiva, con un occhio rivolto al presente - magari a quel Marc Gasol che potrebbe rinverdire i fasti del fratello maggiore, in quel preciso sistema di gioco - e il pensiero già teso al 2016, quando sarà chiamato a prendere la propria Decision Kevin Durant... sperando magari che l'esito sia leggermente diverso dall'unica e originale.