Ventisei anni, poca cosa pensando alla storia della NBA, eppure a Miami, Florida, gli Heat sono qualcosa di più di una squadra di basket, perché in un arco temporale recente la storia della palla a spicchi ha più volte fatto sosta a South Beach. Tre anelli, 18 apparizioni nella post season, l'era Wade - Shaq, ancor prima l'esplosione sotto l'egida Hardaway - Mourning, per chiudere con Lebron e l'inizio, ora, di una nuova vita.

GLI INIZI - A Miami, prima degli Heat, solo una sparuta apparizione dei Miami Floridians nell'ABA sul finire degli anni sessanta, ma è dal 1988, grazie alla famiglia Arison e in particolare a Ted, il capofamiglia, che il grande basket va in scena in una delle località più accattivanti d'America. Con Rothstein in panchina e un manipolo di giovani in campo, gli Heat - nome scelto dai fans per acclamazione popolare - calcano i parquet della massima lega professionistica. L'inizio è difficile, condito da sconfitte e batoste. 17 le fermate consecutive nel primo approccio ad alto livello. La stagione si chiude con un significativo 15-67, complice anche la cattiva collazione della squadra nella Midwest Division, Western Conference, con le ovvie difficoltà di avvicinamento alle partite.

La prima svolta nel 1989, quando Miami, al draft, pesca Glen Rice. La ruota gira e attorno a Rice comincia a costruirsi un gruppo in grado di lottare per i playoff. Nel '91-'92, gli Heat si presentano al prolungamento della stagione, ma l'ostacolo è insormontabile. Di fronte Jordan e i Chicago Bulls. Si torna a casa, come da previsione.

HARDAWAY E MOURNING - Nel 1995, con l'addio di Gentry e l'approdo in panchina di Riley, l'ultimo salto verso l'élite del basket americano. Rice lascia Miami e a South Beach arriva Alonzo Mourning. Con il centro, a completare l'organico Tim Hardaway, Jamal Mashburn, giocatori funzionali come Kurt Thomas e P.J Brown. Tra il 1997 e il 2000, Miami domina l'Atlantic Division. Proprio la prima stagione, '96-'97, segna un clamoroso record, 61-21. A interrompere il cammino degli Heat ancora il 23 con la maglia rosso fuoco dei Chicago Bulls. Proprio con Chicago e New York si instaura una rivalità estenuante a Est, con Miami sempre respinta in chiave post season.

La tegola che spegne i sogni di gloria della franchigia arriva nella stagione 2000-2001. A Alonzo Mourning, leader spirituale della squadra, viene diagnosticata una glomerulosclerosi segmentaria e focale. Via il mago di Zo, arrivano Eddie Jones, Anthony Mason, Caron Butler, Bruce Bowen. Saluta anche Tim Hardaway, in sostanza prende il via una nuova ricostruzione e a Miami il sole tramonta, fino al draft del 2003.

WADE E L'ANELLO - Da Marquette sbarca in Florida, con la scelta n.5, Dwayne Wade. Con lui, Odom e Haslem, in panchina Van Gundy per Riley. La prima stagione di Wade è di apprendistato, ma il potenziale è con pochi eguali. Trascorre una stagione e il roster si completa, dopo la sconfitta al secondo turno di playoff con i Pacers. Shaquille O'Neal saluta i Lakers e Kobe, pensando al quarto anello. Con il gigante, a Miami anche il veterano Laettner. Per stoppare gli Heat servono i migliori Pistons, 4-3 in finale ad Est, ma la gloria è nell'aria e Riley continua a comporre il puzzle attorno a Wade. Veterani, campioni all'ultima chiamata, accolgono l'invito del 3 e di Shaq. Payton, Walker e Jason Williams aggiungono talento e follia alla squadra, Posey è l'elemento perfetto. Difesa e tiro dal perimetro per sfruttare le folate del funambolo da Marquette. Manca la ciliegina sulla torta, quel quid mentale in più. Ed ecco puntuale il destino, che riporta a Miami Alonzo Mourning. Il quadro, perfetto, manca di una pennellata, di una storia, di quelle tipiche d'oltreoceano, che contorni l'anello di leggenda. In finale, gli Heat si ritrovano spalle al muro, sotto 0-2 con i Dallas Mavericks. Non sembra esserci storia in una serie dominata da Nowitzki e compagni. Gara 3 è l'apoteosi dei Mavs di Cuban. All'intervallo scorrono i titoli di coda sul titolo NBA, ma nel terzo quarto accade l'imponderabile. Dallas rallenta, sedata, Miami si risveglia. Wade è jordanesco come non mai - oltre 34 a sera nella serie finale - Miami vola, guidata da mani superiori. La NBA sceglie una franchigia nuova e un nuovo messia. C'è Flash sul trono della lega, protetto dalle gigantesche spalle di Shaq. Payton e Walker coronano il sogno, Riley, l'artefice, da metà stagione al posto di Van Gundy in panchina, sorride sornione. Sulla lavagna, nello spogliatoio Heat, una scritta "4-2", con annessa la data, fissata dopo le prime due sconfitte. L'anello di Wade, ma soprattutto il trionfo di Riley, da 0-2 come solo i Celtics del 1969 e i Blazers del 1977.

DOPO IL TITOLO, LA CRISI - Miami è una squadra costruita per vincere subito, ovvio quindi che, spenta l'euforia post titolo, sopiti i proclami di striscia vincente, la realtà torni a presentare il conto. Gl infortuni bloccano Shaq, la spalla limita Wade e gli Heat ben presto si ritrovano a fare i conti con una preoccupante serie di sconfitte. A salvare, parzialmente, l'annata proprio il centro ex Lakers. Il suo finale sugli scudi consente a Miami di presentarsi comunque ai playoffs, ma senza la magia dell'anno precedente. I Bulls travolgono i campioni in carica e la resa, per 4-0, segna la fine dell'epoca Wade-Shaq. Il centro vola a Phoenix, mentre Wade si opera per ritrovare la brillantezza fisica. A Miami arrivano buoni giocatori, ma comprimari, non campioni. Cook, Banks, Marion, Anfernee Hardaway, inizia un rapido declino. 15-67, questo il deprimente record dell'annata 2007-2008. Il draft successivo restituisce linfa agli Heat. Alla corte di Spoelstra giungono Beasley, scommessa pericolosa, ragazzo dotato di innato talento, ma altrettanta incostanza, e Mario Chalmers, playmaker di attributi e carattere. Wade torna ad avvicinarsi a quello regale dell'anello e a oltre 30 ad allacciata di scarpe riporta in Florida un record sopra il 50%. Il problema è sotto al tabellone. Mourning, infortunato, saluta definitivamente la Lega e Riley corre ai ripari, lasciando partire Marion per arrivare a Jermaine O'Neal e Jamario Moon. La lunga battaglia con Atlanta, ai playoff, vede la sconfita in sette gare di Miami. Con l'alba della nuova stagione, Miami rinforza il reparto esterni. Alston e Arroyo forniscono alternative in regia, Quentin Richardson aumenta la pricolosità dall'arco. Dodici vittorie nelle ultime tredici uscite illudono gli Heat, ma la post season è ancora amara. I Celtics stoppano la corsa degli uomini di Spo.

LEBRON E I BIG THREE - La Nba cambia nel 2010, quando Lebron James decide di portare i suoi talenti a South Beach. A Cleveland, James domina, ma non vince e l'esigenza di scrivere, incastonare, il suo nome nell'albo dei grandi porta alla "decision". Wade, James e Bosh si incontrano e scelgono di spartirsi la torta salariale, rinunciando a contratti faraonici, per mettersi al dito un anello, il primo per James e Bosh, il secondo per Wade. Miami gongola, perché l'arrivo di James cambia radicalmente lo scenario delle ultime stagioni. Gli Heat balzano in testa alla classifica delle pretendenti al titolo. Con James, da Cleveland, il fidato Ilgauskas e tanti giocatori affidabili, da Mike Miller a Bibby, fino a Jerry Stackhouse. L'inizio di stagione è complesso, perché è difficile far convivere stelle di questa grandezza. Miami parte male, ma decolla quasi imporvvisamente. Vince, perché la dose di talento è esorbitante, ma raramente convince. Wade e James sembrano dividersi minuti e scena. Non giocano di squadra, ogni attacco è un assolo individuale. Gli Heat vivono di isolamenti e di isolamenti si può vincere una partita, ma non certo un titolo. La sconfitta puntuale giunge in finale. In una rivincita di quella memorabile del 2006, sono i Dallas Mavericks a spegnere le voglie di Lebron. Su Miami cala il gelo e su James piovono ovvie critiche per l'ennesimo fallimento.

La seconda occasione è anche l'ultima spiaggia per LBJ. Miami, con Battier, Turiaf e Curry, approccia il nuovo anno con più confidenza. Wade e James cercano di coasistere, accantonando atteggiamenti individualistici e coinvolgendo anche il terzo "incomodo", Bosh, decisivo nei momenti caldi di playoff. La regular season, soprattutto a Est, non rappresenta un problema e Miami vola diretta nei playoffs, chiamata a confermare le ambizioni della vigilia. A ovest a vele spiegate procedono i giovani Thunder, guidati da Westbrook e Durant. La finale è uno scontro titanico fra James e KD. A Oklahoma, Miami capisce di avere in mano le chiavi della serie. Esce in parità dalle due sfide esterne e il ritorno all'American Airlines Arena è un tripudio. I Thunder inesperti cozzano nei momenti chiavi contro l'asfissiante difesa Heat e Lebron può finalmente sprigionare un urlo di rabbia. Le critiche, le polemiche, tutto lascia il posto alla gloria. Miami è sul tetto del mondo. Prima dell'ultimo atto, la clamorosa serie con i Celtics e la gara 6 leggendaria di Lebron sul parquet di Boston, con gli Heat sotto 3-2.

Il repeat l'anno successivo. La strada per il secondo anello è però lastricata da numerose difficoltà. Miami opta per una squadra più perimetrale, con Allen e Lewis in grado di allargare il campo. A metà stagione però Riley è costretto a rinforzare il reparto lunghi. Arriva l'istrionico Andersen. Il 2012-2013 è l'anno della striscia. Miami inanella 27 successi consecutivi e si presenta ai nastri di partenza dei playoffs da naturale favorita. Il momento più duro contro i Pacers. Indiana, all'apice della crescita, mette a ferro e fuoco gli Heat, limitati da infortuni e scelte. Dal mazzo Spoelstra rispolvera sprazzi del vero Wade, ritrova Bosh e si affida come al solito a Lebron, In finale, ecco San Antonio. I big three originali, Parker - Ginobili - Duncan, contro quelli di nuova generazione. La storia è nota. Spurs avanti 3-2 e in controllo di gara 6. Il rientro nel quarto periodo degli Heat e l'incredibile tripla di Ray Allen. "The shot", il tiro. Lì cambia la sceneggiatura. Miami vince e poi chiude alla settima. Ad esultare sono ancora Wade e James.

Squadra che vince non si cambia e allora gli Heat confermano in gran parte il roster delle precedenti stagioni, eccezion fatta per Mike Miller, perdita non da poco. Battier continua per un altro anno, arrivano Beasley, cavallo di ritorno, e Oden, centrone sempre bloccato da guai fisici. Per la quarta volta consecutiva Miami si presenta in finale, ma gli scricchiolii in casa Heat si fanno via via più forti. Il 54-28 di stagione regolare non nasconde problemi evidenti. La cavalcata verso la finale non presenta insidie, perché ad Est Indiana perde smalto rispetto alla stagione precedente. Di fronte ancora i San Antonio Spurs. La rivincita texana si consuma quasi senza lottare. Gara 1 è decisa in parte dalla rottura dell'impianto d'aria di casa Spurs. Lebron cede al caldo e ai crampi. Non basta agli Heat la riscossa in gara 2, perché a Miami domina San Antonio. Diaw disegna basket, i "vecchi" di Popovich si mostrano eterni e James è un uomo solo. Nemmeno il poderoso primo quarto di gara 5 scuote i compagni. 4-1 Spurs, si chiude la dinastia Heat.

L'ADDIO DI LEBRON, QUALE FUTURO? - La sconfitta pesa come un macigno, segna il punto di non ritorno. Miami vuol trattenere Lebron, ma nella mente del Prescelto cova l'idea dell'addio. Gli Heat non garantiscono a James un futuro radioso, per questione anagrafica, per fame agonistica, meglio altri lidi, altre scommesse. Un conto è aperto, e porta a Cleveland. Lì, nella terra dove è nato cestisticamente a livello NBA, Lebron vuol tornare, costruendo un nuovo Dream Team, con Irving e Love. La seconda "decision" priva Miami della stella più luminosa. Se ne va il 6 e Miami si scopre povera. Non basta il lavoro dietro le quinte di Riley, il rapporto con diversi compagni si deteriora, non basta nemmeno l'acquisizione da parte degli Heat di Shabazz Napier. Il volto nuovo in casa Heat è quello del due volte campione NCAA con l'Università di Connecticut. 185 cm, 82 kg, ruolo ovviamente playmaker. In regia i Miami Heat pagano dazio rispetto alle rivali. Il duopolio Cole - Chalmers si spegne nell'ultima stagione. Nessuno dei due garantisce la necessaria qualità e allora spazio al futuro, a Napier, scelto dagli Charlotte Hornets, ma ben presto finito in Florida per convincere LBJ a sposare nuovamente la causa. Tentativo fallito.

Due le strade dopo l'addio di James. Rifondare o aggiustare, pescando dal mercato. Riley sceglie la seconda via puntando sulle ultime energie di Wade e sulle voglie di palcoscenico di Bosh. L'ex Toronto sale al secondo posto nella classifica delle stelle di squadra e Miami accoglie per completare il reparto di superstars Luol Deng. In uscita da Chicago, Deng garantisce apporto importante sui due lati del campo. Punti, quantità, ma anche difesa. Non è Lebron, non può esserlo, ma è di certo un ottimo giocatore. Insieme a Deng la scommessa Granger. Una delle tante scommesse lanciate dal duo Spoelstra - Riley negli ultimi anni. Campioni potenziali o presunti tali, bloccati da un carattere difficile o da un fisico non sempre esente da pecche, chiamati a una sorta di resurrezione. Difficile vincere queste sfide, proprio per questo intriganti. Resta l'indubbio potenziale, ammirato nelle annate di gloria a Indiana. Rimangono Andersen e soprattutto Haslem, figure centrali nello spogliatoio, molti veterani lasciano invece la carriera NBA o salutano Miami.

I palyoffs paiono tranquillamente alla portata di un gruppo ridimensionato, ma non stravolto. Giocatori di qualità non mancano e ad Est poco serve per conquistare il prolungamento di stagione. Partono dietro ad alcuni team, su tutti i Cavs di Lebron, ma con Indiana in forte crisi, possono di certo giocare un ruolo rilevante nell'accomodante Eastern Conference.

LA STELLA, DWAYNE WADE - Non si può prescindere dal n.3. In ogni capitolo dei Miami Heat spicca il nome di Dwayne Wade. La franchigia si identifica con questo figlio di Chicago che a Miami si consacra campione. Dal capolavoro del 2006, alla coesistenza con Lebron, fino alla nuova sfida che si prospetta alle porte. Non è più il primo Wade, quello atleticamente dominante anche in una Lega di superuomini. Questo Wade, costretto a rispettare gli anni di fatica e usura, deve gestirsi e soprattutto deve gestire un fisico che reclama riposo. Le ginocchia, martoriate, presentano saltuariamente il conto. Nelle ultime stagioni Spoelstra ne ha centellinato l'uso in regular season per averlo al top nei playoffs,ma senza James è difficile non ipotizzare un minutaggio importante per Wade. La leadership di D-Wade va oltre punti, assist e rimbalzi. Qui a Miami, Wade è il Messia, l'uomo guida, la star di riferimento. Non a caso anche in epoca James, per identificare la squadra si andava dal 3. Rispettato da tutti, riverito dai compagni, tocca soprattutto a lui indicare la via nel momento più complicato. Non a caso in preseason Wade sta prendendosi responsabilità e tiri. Nel recente successo sui Rockets una firma decisiva, un monito agli avversari, la NBA è ancora la sua casa.

Il roster attuale:

Andersen

Birch

Bosh

Brown

Chalmers

Cole

Dawkins

Deng

Drew

Ennis

Granger

Hamilton

Haslem

Johnson

Jones

McRoberts

Napier

Wade

Williams