Ode to the March Madness

Hail to the basketball Gods

For those who play against all odds

March Madness will always be praised

Young guns chasing greatness in sunny spring days

When students show their guts

On every dunk the crowd goes nuts

From Houston through Kentucky and Alabama

playing 4 corners or PhiSlamaJama

Coaches wish they’d cut the last net

But will it be a nobody’s bet?

So if Your School’s selected n.1

Watch out for a cool upset to come!

Se siete capitati su questa pagina e state leggendo l’articolo di Vavel sulla competizione più spettacolare che lo sport non professionistico abbia mai concepito, vi starete certamente chiedendo cosa sia saltato in mente all’autore. La risposta è intrinseca all’ode di cui sopra: la follia di marzo.

Non è nostro intento spiegare a fondo il torneo collegiale più divertente del mondo. Una delle competizioni cestistiche più seguite e interessanti in assoluto. Il motivo è semplice: spiegarlo non si può. Il trucco è calarsi nella March Madness con poche ma mirate nozioni. D’altronde, perché impazzire ulteriormente, quando si sta già vivendo un momento di totale follia?

Sarebbe riduttivo scrivervi che ci sono 64 programmi di basket universitario (più 4 che giocano un turno preliminare) che si contendono il titolo di campione NCAA.

Potete leggere ovunque su internet, o lo sapete già se siete appassionati, che il bracket, le sue seeds (teste di serie) divise in quattro Regions, vengono decisi questa domenica, durante l’arcinoto “Selection Sunday”, da un comitato di esperti e saggi della palla a spicchi. Suona magico, infatti lo è.

Le trentadue università che si guadagnano l’automatic bid attraverso la vittoria della propria Conference (dalla mitica ACC alle Conference meno competitive e conosciute), rappresentano infatti meno della metà delle partecipanti. I criteri di selezione sono variabili, ma si basano su alcuni principi fondamentali che cercano in parte di mitigare la soggettività del comitato. Innanzitutto il record stagionale, in rapporto al coefficiente di difficoltà del calendario sportivo. Di base, le statistiche contano, ma non sono tutto. Vengono prese in considerazione e ponderate le vittorie e le sconfitte (in particolare per quanto concerne gli incroci con i College mensilmente inseriti nel cosiddetto Ranking AP Poll). Le vittorie contro squadre di ranking alto valgono di più, le sconfitte contro squadre “unranked” nelle prime 25, pesano maggiormente (via via che si scende di ranking).

Una volta cominciato il torneo, saltano alla mente due parole chiave: upset e cinderella. L’upset si ha nel momento in cui una testa di serie bassa elimina una più alta. L’upset (termine che viene ormai comunemente utilizzato in tutte le competizioni sportive americane per designare una squadra underdog, sfavorita, che riporta una vittoria contro formazioni sulla carta più forti) può lanciare nel bracket una “cinderella”, cenerentola, che cercherà di farsi strada il più possibile. Dopo il turno preliminare, comincia il Round of 64, poi il Round of 32, le Sweet Sixteen, le Elite Eight (i quarti di finale), per concludere con le Final Four e il National Championship, che avranno luogo quest’anno al Lucas Oil Stadium di Indianapolis.

Le possibilità di indovinare lo svolgimento del bracket e i vincitori partita per partita, prima che il Grande Ballo cominci, sono zero. Ci sono infatti 2 alla 67esima combinazioni possibili, rendendo fuori dalla realtà la previsione di riuscire a completare un bracket perfetto. Nonostante ciò, negli USA, tutti gli appassionati costruiscono il proprio bracket. Chi indovina il maggior numero di combinazioni si guadagna i suoi 15 minuti di gloria in un trafiletto a piè pagina del peggior articolo di ESPN. Scherzo, ma rende l’idea.

Per quanto concerne gli upset e le cenerentole storiche, nessuna delle 4 n.16 annualmente scelte è mai arrivata alle Sweet Sixteen.

Nel 2103 Florida Gulf Coast, qualificatasi al Big Dance come campione della scarsissima Atlantic Sun Conference e partita con la numero 15, diede inizio ad una storica cavalcata fino alle Sweet Sixteen battendo la numero 2 Georgetown nel Round of 64. Fu la nascita della leggenda di “Dunk City”: cinque ragazzi venuti fuori dal nulla che corrono per il campo creando giocate spettacolari che, il più delle volte, si concludono con schiacciate imprevedibili e con parecchi punti esclamativi. Gli Eagles di Coach Enfield superarono San Diego State nel turno successivo guadagnandosi un altro terribile incrocio agli ottavi contro i Florida Gators. Il derby arrise alla squadra con maggior talento, ma la storia era ormai già stata scritta nei turni precedenti. Per darvi un’idea dei componenti di quella fantastica squadra, integrata perlopiù da prospetti di giovani ragazzi bianchi scartati dalle maggiori università dello Stato, il più forte atleta del roster (Sherwood Brown, attualmente in D-League ai Maine Red Claws) era un cosiddetto walk on, cioè uno studente che non aveva avuto diritto ad una borsa di studio per meriti sportivi.

La finale del 2014 ha visto di fronte il talento delle due teste di serie più basse, per somma, mai registrate: la numero 7 Connecticut di Coach Kevin Ollie (lo ricorderete play di riserva dei Sixers di Iverson che persero le finali NBA del 2001 contro i Lakers di Shaq e Kobe) e del play Napier (ora agli Heat) ha infatti battuto i terribili freshmen della numero 8 Kentucky, conquistando il secondo titolo in 4 anni (dopo quello del 2011 con gli Huskies guidati dall’attuale play degli Hornets, Kemba Walker), il terzo dal 1999.

L’unica volta in cui tutte e 4 le teste di serie numero 1 sono arrivate alle Final Four fu nel 2008 (Kansas, Memphis, UCLA, North Carolina), con i Jayhawks di Kansas guidati da Mario Chalmers che vinsero il titolo in finale contro la Memphis di Derrick Rose. A onor di cronaca segnaliamo che quella stagione di Memphis è stata poi annullata dalla NCAA per violazioni del regolamento collegiale (per capire l’impatto di un evento del genere sulle sorti di un programma di basket universitario, vi consigliamo di seguire gli sviluppi della squalifica di Syracuse e di Coach Jim Boheim avvenuta settimana scorsa a seguito di varie e ripetute infrazioni).

Questo 2015 presenta una sola grande favorita, i Kentucky Wildcats di Coach Calipari sono infatti imbattuti in stagione e possono vantare una combinazione di freshmen di talento e giocatori d’esperienza che in futuro andranno ad arricchire i roster della NBA. Per chi ha seguito l’articolo sui migliori cinque prospetti del College, Karl Anthony Towns Jr, centro dominicano della squadra, è sicuramente il freshman di maggiore spessore, mentre Willy Cauley-Stein, al terzo anno, si presenta come un rim protector di sicuro affidamento, tanto che il paragone con il centro dei Mavs Tyson Chandler non è così peregrino. Qualità che abbonda anche sugli esterni, con i gemelli Andrew e Aaron Harrison, Devin Booker e Tyler Ulis a garantire punti e difesa. Kentucky sarà la testa di serie n.1 della Midwest Region.

Le altre 3 n.1 seeds saranno, con ogni probabilità, i Duke Blue Devils di Coach K e del top overall prospect Jahlil Okafor, per la South Region. I Villanova Wildcats (nickname comune a molte università) per la West Region. E per finire i Virginia Cavaliers per la East Region.

Non è ancora ufficiale, ma fra i grandi esclusi potrebbero esserci proprio gli Huskies campioni uscenti, che vengono da una pessima stagione, nonostante l’ultima vittoria in casa contro la numero 20 del ranking, gli SMU Mustangs di Coach Larry Brown. Proprio quest’ultimo, a mio personalissimo parere, potrebbe guidare i suoi, al ritorno al Grande Ballo dopo un digiuno che durava dalla fugace apparizione del 1993, alla cavalcata più sorprendente del Torneo. Se proprio dovete mettere il dollarozzo su un College non di prima fascia, meglio scommettere sul Coach campione NBA con i Pistons nel 2004, e già avvezzo all’ultimo taglio della retina dei parquet collegiali, avendo già vinto il titolo alla guida dei Kansas Jayhawks nel lontano 1988.

Insomma, non ci resta che sintonizzarci su Vavel per conoscere tutti i particolari e gli sviluppi del torneo di basket più pazzo d'America.
Stay connected, stay Vavel!