Il nord, il centro, ed ora il sud della costa. Il nostro viaggo nella Eastern Conference continua al caldo della Florida, dove analizzeremo i Miami Heat e gli Orlando Magic, per poi risalire e rientrare verso la Georgia, lo stato di Atlanta, città degli Hawks. Tre realtà ben diverse tra di loro, con obiettivi e aspettative differenti, ma tutte molto interessanti, ognuno per i propri motivi. L'ambizione, la crescita e la riscoperta di se stessi.

MIAMI HEAT (a cura di Antonello Angelillo)

"Attualmente, solamente due squadre della Eastern Conference sono in grado di vincere l'anello". Magic qualche giorno fa si è pronunciato così su Twitter. Una delle due squadre in questione è ovviamente quella con base in Ohio e che come ultimate leader del luna park ha LeBron James. L'altra è quella che il Chosen One ha lasciato poco più che un anno fa: Miami. Gli Heat di DWade e Chris Bosh hanno deluso le aspettative l'anno scorso e - potete scommetterci - faranno di tutto per non ripetere l'errore della season 14/15, quando si sono fermati al 10° posto della Eastern, fallendo l'aggancio ai POs da campioni in carica ad Est, dopo aver partecipato alle rpecedenti 4 Finals. Gone fishing prima del previsto, la prima volta dal 2008, che si può imputare a diversi fattori. Innanzitutto la salute precaria, che ha privato Miami del suo secondo violino, Chris Bosh, per 38 gare e del suo primo, Wade, per 20. In secundis un roster sempre in divenire e mai effettivamente stabile, con annesse tutte le negatività che derivano da ciò come una rotazione mai definita o schemi offensivi e difensivi che variano.

Proprio in relazione agli schemi difensivi si va ad allacciare l'ascesa della nota più intrigante, innovativa e spariglia-mazzo. Quella che Pat Riley ha definito come la vera draft pick degli Heat: Hassan Whiteside, un rimbalzista atletico e caratterialmente bizzoso che sembra ciò che doveva essere e non è mai stato JaVale McGee. L'altissimo centro draftato da Sacramento nel 2010 ha dovuto fare un giro larghissimo (con tappe anche a Tripoli ed in Cina) prima di imporsi in NBA ed essere ripescato da Miami a stagione in corso. Per lui cifre strabilianti, come la "triple double no assist" con cui ha ammattito i Bulls. O i 23 punti con 16 rimbalzi allo Staples. La presenza di un vero centro all'interno dell'area in quel di South Beach era qualcosa che non si vedeva da tempo, Miami è stata difatto la prima squadra ad esplorare la frontiera dello small-ball. Da studiare l'intesa nel front-court con Bosh, che ha sempre giocato da 5 le ultime stagioni. A ciò si aggiunge la presenza di McRoberts, altra variante da non sottovalutare. Anche McRoberts ha passato la scorsa stagione più in infermeria che in campo (17 gare giocate) ma l'assenza del suo gioco da playmaking-four ha costretto Spoelstra a spostare la palla in mano a Deng, che originariamente avrebbe dovuto giocare da tagliante puro, in più occasioni del previsto. Così facendo ne ha risentito il gioco dell'intero team. Miami si è poi coperta scambiando Dragic, ben più playmaker di quanto lo fosse in precedenza Chalmers, che a quel punto è retrocesso a riserva.

Miami ha difficilmente messo sul parquet quello che - ad effettivi completamente sani - sarebbe stato il quintetto titolare, ovverossia Dragic - Wade - Deng - Bosh - Whiteside. O almeno questo è il quintetto che si presuppone sia il titolare per la stagione che sta per cominciare. Motivo di eccitazione non è solo il fire-power di uno starting-five di tutto rispetto ma anche una ritrovata profondità in panchina, altro punto debole degli Heat degli ultimi anni (cosa ovvia se si sacrifica il salary-cap per tre All-Star). Ad essa sono stati aggiunti elementi da ritrovare, nel rispetto politica della miglior squadra in NBA sotto questo aspetto probabilmente (vedi la voce Andersen): dentro quindi Gerald Green sull'esterno e di Amar'e Stoudemire in un a questo punto reparto lunghi bello carico (considerati anche Haslem, McRoberts ed Andersen). Hanno finora nel training-camp destato impressioni importanti entrambi i rookie draftati: Josh Richardson, guardia ex Tennessee, scelto con la 40 ma sopratutto Justise Winslow, scelto alla 10 e potenziale steal of the draft. Esce da Duke, ha un carattere tosto. Secondo Krzyzewski assomiglia a Grant Hill, secondo DWade ad un giovane Ron Artest, entrambi ottimi difensori e pericolosi tiratori. Perciò per Miami Winslow può rappresentare ciò che fu Battier: un 3D, ovvero un giocatore da triple (3) e difesa (D). Insomma, un altro giocatore meritevole di minuti in rotazione. Così come Tyler Johnson, hustle player che si è guadagnato qualche minuto sul finire della scorsa RS. Al momento le gerarchie degli Heat, che in vista del training camp in corso al roster hanno aggiunto Benson, Hawkins, Kelley, Whittington ed il veterano Lucas III, sembrano sulla carta queste. Lo starting five di sopra, second unit con Chalmers - Gerald Green - Winslow - McRoberts e Stoudemire, più Andersen ed Haslem a coprire le spalle agli infortunati (ed infatti nella prima gara di pre-seaons Haslem ha preso il posto di Whiteside nello starting five) ed i giovani (compreso Ennis, di cui si stanno perdendo le tracce) a spingere da dietro.

ORLANDO MAGIC

1994, 1992, 1992, 1995, 1990, 1995. Non parliamo di stagioni NBA e nemmeno abbiamo sparato date a caso. Sono gli anni di nascita del probabile quintetto degli Orlando Magic versione 2015/16, con l’altrettanto probabile sesto uomo in aggiunta. Elfrid Payton, playmaker; Victor Oladipo, guardia; Tobias Harris, ala piccola; Aaron Gordon, ala forte; Nikola Vucevic, centro. E il sesto uomo, quel Mario Hezonja che ha fatto innamorare una buona metà dell’Europa con la canotta del Barcellona. Il rookie scelto con la pick numero 5 allo scorso draft è pronto a sbarcare oltreoceano, a rapire con il suo talento e la sua arroganza tutti i tifosi di una squadra che non è mai riuscita ad arrivare fino in fondo nonostante ci sia andata vicino nel 2009. Da quelle Finals però, il vuoto più totale. Anni di ricostruzione che per ora non hanno ancora portato nulla di buono, solo cocenti delusioni miste a stagioni ricche di frustrazione, tra head coach passati senza lasciare il segno e cambiamenti in corsa nel progetto.

Ma forse quest’anno qualcosa è cambiato, più di qualcosa. Payton ha dimostrato di poter incidere, dopo un anno con numeri da brivido, in tutti i sensi: 8,9 punti, 6,5 assist, 4,3 rimbalzi ma anche 2,5 palle perse e un 26% da tre e un 55% ai liberi che non lasciano spazio a repliche. Eppure non si può non amare la fantasia di questo pazzo rookie che sta sorprendendo tutti, così come è difficile non essere attratti da Victor Oladipo, i cui paragoni con Wade si sprecano. Chiariamo subito: lo ricorda per certi versi, ma deve ancora farne di strada… Gli infortuni per ora lo hanno limitato troppo, questo è indubbio. Così la leadership della squadra è stata assunta da Tobias Harris, ala pura esplosa lo scorso anno e che in estate ha deciso di rimanere nonostante svariate offerte di team disposti a puntare su di lui. L’interrogativo di molti era però tanto elementare quanto complicato da risolvere: può essere il leader di una squadra da PlayOffs? Il dubbio è ovviamente ancora valido, ma a Orlando sembra che la star non sia lui, bensì quel piccoletto (193 cm…) che gioca da guardia e risponde appunto al nome di Oladipo.

Eppure la squadra sembra così perfetta, costruita con un qual certo criterio. Il problema è che tutti vorrebbero avere la palla in mano, è difficile giocare di squadra. Anche Nikola Vucevic, uno dei migliori centri della lega, ha questo problema, ma non si può non puntare su un giocatore del genere, con quella completezza e un’innata capacità di andare a rimbalzo. Restano invece i soliti interrogativi su quello che dovrebbe essere, almeno nei piani di Orlando, il suo partner in crime sotto canestro, ovvero Aaron Gordon, scelto altissimo un anno fa al draft e praticamente mai visto in campo nella prima stagione a causa di problemi fisici. Il quintetto ve l’abbiam presentato, tocca alla panchina: Hezonja difficilmente faticherà a imporsi, lo stesso Fournier ha dimostrato di poter stare nella lega confermandosi un buon realizzatore, l’esperienza dei pochi veterani (CJ Watson, Channing Frye, Jason Smith) sarà fondamentale per far crescere ulteriormente i giovani del quintetto, così come i vari Dedmon, Napier, Nicholson e gli altri che saranno tenuti a roster per la stagione. È comunque un errore aspettarsi dalla gestione di Scott Skiles dei risultati immediati, è difficile pensare che la squadra raggiunga i PlayOff o che comunque possa dire la sua: quest’anno servirà per trovare la chimica giusta per gli anni a venire. E lì sì che ci sarà da divertirsi.

ATLANTA HAWKS

“Little San Antonio”, “La squadra più bella e divertente della lega”, “Come muovono la palla loro solo i Warriors”. Eh, però quelli della baia hanno vinto. Gli Atlanta Hawks sono stati, senza se e senza ma, la sorpresa della scorsa stagione, chiusa con la seed numero uno della Eastern Conference e crollati sotto i colpi di un LeBron James in modalità unstoppable. Eppure sembrava tutto perfetto, sembrava che la chimica di squadra, che le rotazioni, che la difesa stessa fossero affinate al punto giusto. Poi ci ha pensato il giocatore più forte del mondo a rompere l’incantesimo. E in estate la situazione potrebbe essere precipitata del tutto. DeMarre Carroll ha infatti scelto di continuare la sua carriera in quel di Toronto, firmando un contratto da 60 milioni in 4 anni con i Raptors, lasciando Budenholzer a piedi. Il prodotto di Missouri era il perfetto interprete del ruolo di ala piccola nelle idee del figlioccio professionale di Gregg Popovich: difesa e attacco, movimenti senza palla, capacità di trovare il canestro lasciando giocare gli altri. Un perfetto elemento di squadra, appunto. Ma ora ad Atalanta DeMarre non c’è più, e non è stato realmente rimpiazzato. Ci sono tre elementi in grado di ricoprire quello spot, ma nessuno dei tre ha l’efficienza di Carroll: Kent Bazemore è un buon attaccante ma un pessimo difensore, così come Tim Hardaway jr. Ci sarebbe anche Thabo Sefolosha, e probabilmente almeno in quintetto giocherà lui, difensore eccezionale, probabilmente il miglior della lega in uno-contro-uno, ma praticamente nullo nella metà campo offensiva.

Il sistema Atlanta è crollato in un nonnulla ed è da ricostruire, partendo dai punti cardine, che non mancano assolutamente: la velocità, il dinamismo e la fantasia dei due playmaker Jeff Teague (titolare) e Dennis Schroder (sesto uomo), le triple di Kyle Korver, la coppia di lunghi Horford-Millsap, che ha finalmente un cambio come si deve come Tiago Splitter. La situazione in quel di Atlanta non è dunque totalmente compromessa, ma ci sono altri fattori da considerare: una lotta al vertice, insicurezze su chi sarà presidente, il caso Mike Scott, condannato per possesso di droga, e nemmeno poca. Il roster però c’è, può funzionare anche senza Carroll, ma certamente non da subito. Lecito attendersi una stagione tra gioie e dolori, ricordando i bei tempi passati lo scorso anno e pensando al futuro, che con Schroder sembra davvero roseo.