Che non fosse una partita come le altre lo si sapeva già da tempo, tra Serbia e Albania i rapporti non sono mai stati troppo di amicizia, dalla morte di Tito in poi. La partita di ieri sera ci ha messo di fronte ancora una volta a una situazione che ha ben poco a che fare con il calcio, ma che allo stessso modo era per certi versi inevitabile.

La reale origine dei rapporti bellicosi tra i due stati va cercata sul finire degli anni '80, pochi anni dopo la morte del generale che aveva tenuto unito con la sua dittatura un impero assemblato piuttosto male, testimoniato dal fatto che all'interno dell'ex Jugoslavia erano rappresentati 6 stati, 5 lingue e 3 religioni diverse. Quando iniziò a risvegliarsi l'orgoglio nazionalista dentro ai popoli appartenenti a quest'unione, nel Kosovo, provincia autonoma serba, nacque una certa insofferenza verso la federazione Jugoslava, dettata dal fatto che la maggior parte degli abitanti della provincia erano di etnia albanese. La situazione precipitò nel marzo 1989, quando Slobodan Milosevic, leader del governo serbo, revocò l'autonomia al Kosovo: da lì partì una campagna di resistenza non violenta da parte degli abitanti della provincia, che sfociò ben presto in sangue e guerra, in particolare dal 1996 al 1999 si fronteggiarono l'UCK (esercito di liberazione del Kosovo, formato per la maggiore da gente di etnia albanese) e l'esercito serbo, causando morte in tutto il paese. L'intervento della NATO nel 1999, diretto contro la Serbia, mise in fuga dal Kosovo la maggior parte della popolazione: i serbi tornarono verso il proprio territorio, mentre quasi 800mila Kosovari si rifugiarono in Albania e in Macedonia. La provincia dichiarò la propria indipendenza dalla Serbia nel Marzo 2008, ma ancora oggi è un territorio amministrato dall'ONU, e solo 108 dei 193 membri lo riconoscono come stato.

Il legame tra Albania e Kosovo è evidente anche nel calcio, basti pensare che più della metà dei calciatori della Nazionale allenata da Gianni De Biasi è di origine Kosovara: tra questi c'è anche il capitano della Nazionale, Lorik Cana, nativo di Pristina, capitale (o capoluogo) del Kosovo. Inoltre il gruppo organizzato di tifosi "Tifozat kuq e zi" è formato per la maggior parte da Kosovari, residenti nello stato o nel resto d'Europa (sono tantissimi infatti i territori balcanici abitati da Albanesi, soprattutto in Macedonia), e tra i vari stendardi portati dagli ultras Albanesi ci sono anche quelli del già citato UCK, perchè ancora oggi i rapporti sono pessimi. A poco serve un accordo di normalizzazione dei rapporti come quello raggiunto a Bruxelles lo scorso anno, una guerra non si scorda facilmente, e men che meno più di 40 anni di dittatura.

Intuibile che il rischio di scontri a questo punto sia altissimo. Per prevenire spiacevoli episodi, per il match di ieri sera la città di Belgrado è stata totalmente blindata, la polizia ha annunciato la tolleranza zero verso ogni tipo di gesto provocatorio, come può essere il bruciare una bandiera. Sfida difficile, soprattutto conoscendo gli ultras serbi. Basti ricordarsi di Ivan Bogdanov, protagonista assoluto nella gara tra Italia e Serbia nel 2010, (non) giocata a Genova: il capo-ultrà salì in cima alla vetrata che separa gli spalti dal campo di gioco e bruciò una bandiera Kosovara e una Albanese, mentre tutto il resto della tifoseria, se così la si può chiamare, lanciava in campo e sugli spalti fumogeni e bengala, mettendo a rischio l'incolumità di giocatori e tifosi. Gli scontri tra tifosi serbi e forze dell'ordine italiane proseguirono anche fuori dallo stadio, e l'UEFA decretò la vittoria per 3-0.

Quello di Genova però è solamente uno degli episodi in cui gli ultras serbi hanno causato scontri e violenze, e il simbolo è universalmente conosciuto: Zeljko Raznatovic, detto Arkan, capo della tifoseria della Stella Rossa di Belgrado. Da capo ultrà a capo militare, Raznatovic raccolse nella curva 3000 uomini per comporre il gruppo che passerà alla storia con il nome di Tigri, ovvero una squadra di guerriglia, che combatteva sotto il nome di Slobodan Milosevic. Le Tigri agirono in Croazia e in Bosnia, praticando soprattutto pulizia etnica durante tutto il periodo della guerra. Arkan venne ucciso da un poliziotto in congedo nella sua Belgrado, il 15 gennaio 2000.

Torniamo alla partita. Ieri sera allo Stadio Partizan l'UEFA ha vietato l'ingresso ai tifosi albanesi (anche se sembra che alcuni gruppi fossero già in possesso del biglietto), difficile comunque pensare che fuori dallo stadio la situazione fosse tranquilla. Il clima è teso sin dalle prime battute, la situazione inizia a precipitare alla mezz'ora, quando sugli spalti inizia ad esserci movimento, in particolare nella tribuna centrale. Il tracollo definitivo avviene al 42': un drone vola sopra lo stadio, ad esso è legato uno stendardo che inneggia all'indipendenza Albanese del 1912 e alla rivolta Kosovara. Mitrovic, difensore serbo, riesce a prendere l'oggetto e lanciarlo via, facendo riprendere il gioco, ma il gesto non piace ad alcuni giocatori avversari: faccia a faccia prima, rissa in campo poi, e infine anche invasione dei tifosi di casa, con inoltre l'attaccante albanese Balaj colpito da una sedia. Si corre negli spogliatoi, mentre sulle tribune volano fumogeni. Allo Stadio Partizan era presente anche Ivan Bogdanov, appena uscito dal carcere, e sembra inoltre che abbia partecipato anche lui alle trattative per far riprendere la gara.

Pare che l'idea del drone sia stata di Orfi Rama, fratello del premier albanese Edi Rama, il quale era presente nella tribuna d'onore dello stadio di Belgrado. Immediatamente è stato arrestato dalla polizia serba e messo in carcere. Il ministro dell'interno dell'Albania Tahiri ha mandato immediatamente questo messaggio alle autorità di Belgrado: "Il governo serbo deve assumersi la responsabilità sulla sicurezza, la vita e la salute dei giocatori e dello staff tecnico della nazionale albanese di calcio. Devono essere prese tutte le misure per garantire la sicurezza anche di tutti i cittadini albanesi presenti allo stadio". Insomma, sicurezza per la squadra e per i cittadini, sperando in un ritorno tranquillo.

A quanto risulta dalle parole di De Biasi e Cana però non è andata proprio così: "ci hanno aggredito, sia i tifosi che i servizi d'ordine. Volevamo solo riprenderci la bandiera e tutto sarebbe tornato come prima. A gara sospesa i delegati UEFA hanno visto quello che è successo, volevano far riprendere la partita con lo stadio vuoto, ma era davvero impossibile tornare in campo." Il capitano della Nazionale Albanese ha parlato anche di Branislav Ivanovic, capitano della nazionale serba, definendolo come "un uomo vero, ha accettato la nostra decisione e prima della partita è venuto da noi per dirci che questo è solo un gioco. Vedremo quando si potrà rigiocare questa partita e se la giustizia prevarrà. Il calcio è stato creato come un gioco per divertirsi, non per assistere a scene simili". Il giocatore del Chelsea ha invece dichiarato il suo dispiacere per i fatti: "C'è rammarico perché il calcio è finito al secondo posto. I calciatori albanesi non erano disposti a proseguire ed è stato deciso di interrompere la partita. Adesso saranno le autorità competenti a prendere delle decisioni".

Tra le autorità competenti chiamate a decidere c'è anche la UEFA, ovviamente. La massima associazione calcistica europea è sotto accusa per i fatti accaduti ieri sera a Belgrado. Era una partita che andava giocata? Com'è stato possibile far finire queste due squadre nello stesso girone? Precisiamo che quando sono avvenuti i sorteggi dei gironi, il regolamento prevedeva che per motivi politici non sarebbero potute finire nello stesso girone le accoppiate Spagna-Gibilterra e Armenia-Azerbaigian. Nessuno ha pensato a Serbia e Montenegro? Serbia e Macedonia? O con la stessa Albania? Così non pare. A ragione di ciò la UEFA ha portato il fatto che lo scorso anno si sia giocata Croazia-Serbia, primo incontro tra le due nazioni dopo la fine della guerra nel 1991, e non ci siano stati scontri, merito anche dell'efficienza dei servizi di sicurezza. Ovviamente sugli spalti non ci sono stati gesti d'amore, anzi, cori nazionalisti, e gli inni sono stati fischiati, ma alla fine la partita si è svolta in un'atmosfera sì calda, ma non in un clima di tensione come accaduto ieri sera a Belgrado.

Questo è stato il principale errore della federazione: sottovalutare la situazione. Già, perchè si potrà anche mandare un arbitro d'esperienza come Atkinson, avere a bordocampo diversi delegati per monitorare la situazione, ma far giocare una partita del genere con il pubblico è sempre un errore, ancora di più conoscendo i tifosi serbi e i loro comportamenti. Impossibile pensare che nessun albanese sarebbe riuscito a entrare allo stadio: dalla porta d'ingresso o dal cielo un segnale sarebbe arrivato, che fosse stata una bandiera appesa sugli spalti o un drone, come poi è stato. Partite del genere o si giocano a porte chiuse o non si giocano, forse meglio optare per la seconda, almeno stando così le cose. Sta di fatto che ora la scintilla dell'odio si è riaccesa tra le due nazioni (non che si fosse mai spenta), e ancora una volta una partita di calcio si trasforma in qualcosa di molto di più. Non si capisce bene cosa, ma sicuramente ciò ha poco a che fare con il campo e il gioco che tutti noi amiamo.