Da un lato il Barça più forte di sempre, dall'altro uno squadrone imbattibile. Non è una sfida europea indimenticabile quella che stiamo presentando, una di quelle gare tra top club che restano nella mente degli sportivi. Stiamo parlando della "stessa" squadra, dello stesso club, ma di tempi, annate ed emozioni diverse, che viaggiano su binari paralleli, eppure uniti da un sottile filo rosso. Rosso e blu, blaugrana. Il Barcellona ha cambiato pelle ma non ha smesso di vincere. Al di là dei paragoni, dei numeri, dei perché, infatti, ciò che conta realmente per un club sono i titoli. E i signori in foto, Guardiola ed Enrique (amici da una vita) vincono e convincono, facendo scattare l'immancabile confronto tra stili di gioco e mentalità. Chiaro come la linea dei catalani rimanga la stessa ormai da anni, anche dopo il cambio di Guardiola: con l'avvicendarsi di Vilanova, Martino ed ora di Enrique la tattica non è mai stata rivoluzionata in modo clamoroso. Mentre, però, per i primi due (quando si parla di Vilanova il ricordo commosso è d'obbligo) l'ombra di Pep si è sempre profilata, l'asturiano ex Roma ha avuto delle difficoltà iniziali, forse di gestione, ma mai di confronto con Guardiola. La piazza lo ha aiutato, sapendolo molto attaccato ai colori (oltre alle 207 presenze da giocatore, 3 anni da allenatore del Barça B non si scordano), e lui ha ripagato. In meno di due stagioni, già portate a casa Liga, SuperCoppa di Spagna ed Europea, oltre alla Champions intascata contro la Juve il 6 giugno scorso. 

Si dirà, "certo il Barça di Guardiola non ha confronti". E forse è così. Infatti, i due Barça - a prescindere da valutazioni sui risultati, ora premature - sono poco coincidenti, con dei tratti, come si diceva in apertura, simili. Coincidenti, va da sé, nella condivisione della cornice strutturale, quella di una società fondata sul sistema della "Masia", la cantera, e fedele nei secoli a una filosofia «orange» con Buckingham, Michels e soprattutto dal Cruijff tecnico (artefice - come non si stanca di ripetere Guardiola - di una «cappella» che i successori si sono limitati e si limitano a restaurare e affinare).

Diversi, invece, in certi tratti specifici. Il Barça di Guardiola era un’incarnazione del calcio-utopia, proprio come l’Ajax, l’Olanda o il Milan di Sacchi: un insieme di magie inspiegabili, eppure rintracciabili con precise spiegazioni tattiche: e cioè, rispetto a ora, una linea difensiva ancora più alta e con più offside sistematico; un tutt'uno di possesso e pressing (al punto da portare a una fusione tra le due fasi fino a renderle quasi indistinguibili); più tagli dei centravanti e una maggiore polivalenza di tanti giocatori, con Messi spesso «falso nueve». 

Enrique, invece, propone un calcio forse più essenziale, meno estremo e radicale, senza che questo escluda, ovviamente, le magie: vedi il secondo gol alla Roma, da riapprezzare da ogni angolatura.

Tutto, nel Barça attuale, è condizionato dal tridente. Forse Guardiola non aveva la classe a disposizione di Enrique, che non ha dovuto far altro che assecondarla  con  intelligenza: dopo gli attriti iniziali, ha concesso ai tre potenziali «palloni d’oro» una libertà non anarchica, che loro stessi provvedono a ripagare con ripiegamenti difensivi impensabili per giocatori di quel talento. Nel tridente, sempre e per sempre legato a Messi, sembrano crescere anche il peso di Suarez, un "9" come pochi altri, e di Neymar. L'infortunio di Messi ha paradossalmente sveltito questo processo, ora al culmine. 

Allora come paragonare Enrique e Guardiola? Sul breve la verifica più interessante sarebbe quella col Bayern, dato che, a meno di imprevisti o sorteggi disgraziati, i due team potrebbero trovarsi in una finale di Champions (oltretutto a San Siro) più credibile della semifinale della scorsa primavera. Sarebbe un confronto tra evoluzioni indicativo per l’evoluzione del calcio.