Carlos Dunga, Mano Menezes, Felipao Scolari, ancora Dunga. Sono gli ultimi allenatori ad essersi avvicendati sulla panchina della nazionale brasiliana dal 2010 ad oggi. I mondiali in Sudafrica, quelli giocati in casa l'estate scorsa, la Copa America 2011 e l'edizione di quest'anno, senza dimenticare i Giochi Olimpici di Londra 2012, tutte manifestazioni nelle quali il Brasile ha clamorosamente fallito l'obiettivo dichiarato di vincere. L'elenco dei commissari tecnici succedutisi alla guida della Seleçao rende esplicite le difficoltà dei verderoro nell'ultimo lustro, incapace di produrre con continuità giocatori di talento in tutte le zone del campo. Per la prima da decenni - forse da sempre - i pentacampeones si trovano a dover fare i conti con una generazione calcistica inferiore rispetto a molte altre sfornate dalle rivali sudamericane, Argentina in primis, e da quelle europee (ogni riferimento a Spagna e Germania è puramente voluto).

Da Dunga a Dunga quindi. Dall'eliminazione per mano dell'Olanda nella Coppa del Mondo 2010, a quella di ieri notte a Concepcion ad opera dell'ostico Paraguay di Ramon Diaz, sono trascorsi cinque anni di insuccessi, con l'unica eccezione costituita dalla vittoria in Confederations' Cup nel 2013. Decisamente poco per le abitudini della casa, ormai a secco di titoli mondiali dal 2002, un'era geologica per i parametri verdeoro. Dopo lo choc sudafricano fu Menezes a prendere le redini della Seleçao puntando su un gruppo giovane (Pato, Ganso, Thiago Silva) nella speranza che lo stesso potesse maturare per la Coppa del Mondo 2014. Eliminati ai rigori nel 2011 dalla Copa America dal Paraguay del Tata Martino (la storia tende a ripetersi, come è noto), l'obiettivo successivo fu individuato nel titolo olimpico, mai conquistato dai verdeoro. Altro giro, altro flop, con sconfitta in finale contro un giovane Messico che non darà poi seguito a quell'exploit londinese. Quindi la decisione di affidarsi a Scolari, vero e proprio santone del calcio brasiliano, ultimo c.t. di un Brasile vincente e reduce da un'ottima esperienza alla guida del Portogallo (molto più sfortunata invece l'avventura al Chelsea, culminata in un repentino esonero da parte di Abramovich).

La vittoria nella Coppa delle Confederazioni sembrava essere il preludio a un cammino trionfale nel successivo Mondiale di casa, anche grazie alla formidabile ascesa di Neymar Junior, unico campione in grado di accendere gli animi della torcida verdeoro. Mai successo come quello del 2013 fu più effimero per la Seleçao, avvantaggiata dal giocare su campi amici una manifestazione troppo breve per rappresentare un test realmente probante. Il resto è storia recente, con il Mineirazo ad agitare le menti di una selezione mai effettivamente competitiva, ma sottoposta comunque alla pressione che deve subire ogni squadra che rappresenti il Brasile in campo internazionale.

Il fallimento nella Copa America in corso in Cile, durante le quale sono venute allo scoperto difficoltà nervose e tecniche, è solo l'ultimo capitolo di un declino che una decina d'anni fa sembrava inconcepibile, quando a vestire la maglia verdeoro erano fuoriclasse del calibro di Kakà, Ronaldinho, Ronaldo e Roberto Carlos, in un vero e proprio dream team che avrebbe raccolto poco, ma il cui talento era ancora una volta il marchio distintivo della Seleçao. Il Brasile attuale, al netto di assenze come quelle di Oscar, Neymar, Luiz Gustavo, Danilo e Marcelo (sempre tenuto in panchina da Dunga), non può essere la squadra faro del panorama calcistico internazionale. Coutinho, Firmino, Willian, Elias sono tutti ottimi giocatori, ma non all'altezza della strepitosa storia dei cinque volte campioni del mondo. Se poi, come ieri sera a Concepcion, uno degli errori decisivi giunge da Thiago Silva, difensore al di sopra di ogni sospetto, il destino brasiliano è immediatamente segnato. Si discuterà tanto, e probabilmente anche a ragione, delle scelte di Dunga in questa Copa America, ma sarebbe l'ennesima ricerca di un capro espiatorio di un movimento calcistico che necessita di ritornare a produrre al più presto giocatori dal talento ineguagliabile, come per decenni è accaduto nel Paese più grande del Sudamerica.