I tifosi avversari avranno accolto con giubilo l'addio di Antonio Conte alla Juventus. Diversamente, quelli bianconeri avranno provato incredulità e sgomento. La fine di un incubo per i primi, l'inizio di un altro - forse - per i secondi. Il tecnico leccese è stato senza dubbio il principale artefice della rinascita bianconera: erano anni che non si vedeva una squadra italiana dominare così ferocemente la Serie A. Nemmeno l'Inter pluridecorata del profeta portoghese Josè Mourinho aveva mai offerto una dimostrazione di forza così roboante e soprattutto continua, forse soltanto il Milan dei record di Fabio Capello ('91-'94) riusciva a trasmettere dal campo la stessa impressione di assoluto controllo del nostro campionato. Eppure non è stato sufficiente: il totale sconforto con il quale le rivali italiane entravano allo Juventus Stadium di fronte alla schiacciasassi bianconera, in Europa non era percepito; la tirannia tecnico-tattica del calcio pieno ed intenso della corazzata torinese, nelle competizioni europee crollava. Entro i confini nazionali, la Juventus di Antonio Conte riusciva a tramutare i propri avversari in agnelli sacrificali; in Champions League, sembrava fossero quest'ultimi a trasformarsi in leoni di fronte alle zebre juventine.

L'ENNESIMA SCONFITTA - Antonio Conte lascia la Juventus al culmine di un ciclo leggendario, per il campionato italiano. Il suo acume deve avergli fatto scorgere la discesa che immediatamente sarebbe seguita, secondo quello che a suo dire era il fisiologico esaurimento di un percorso trionfale ma logorante: meglio andarsene ora, al secondo giorno del quarto ritiro estivo, nonostante le tempistiche sanguinose nei confronti della programmazione societaria, piuttosto che attraversare una stagione tormentata da insoddisfazione e demotivazione. Nonostante i successi, a causa dei successi stessi. L'allenatore leccese, secondo quanto traspare delle sue precedenti dichiarazioni, si è sentito intrappolato da una realtà locale che non gli avrebbe consentito - non in tempi brevi, quantomeno - di competere concretamente per traguardi superiori a quelli già raggiunti - ripetutamente raggiunti. Le divergenze in sede di calciomercato non sono altro che la controprova dell'insanabile incompatibilità fra un allenatore desideroso di mettersi alla prova su scala internazionale ed un club che attualmente non è in grado di garantirglielo.

Si potrà certamente discutere che nel recente fallimento bianconero in Champions League, con l'eliminazione nella fase a gironi per mano del Galatasary, ci sia stata anche la sua compartecipazione, fra scelte scellerate in sede di formazione titolare e cambi difficilmente comprensibili a partita in corso, ma, per quanto ragionevoli, queste considerazioni non possono aver influito in alcun modo sulla risoluzione finale di Antonio Conte di lasciare la Juventus. Il migliore allenatore della Serie A che sceglie in prima persona di lasciare la miglior squadra del campionato italiano: questa è la sintesi. Questa è la fotografia di fronte alla quale i tifosi giallorossi, partenopei, interisti, milanisti e anche viola ieri hanno, seppur per un breve attimo, festeggiato. A maggior ragione dopo la nomina del suo successore, quel Massimiliano Allegri che non è riuscito mai a convincere pienamente nemmeno dopo la Panchina d'Oro col Cagliari 2008/2009 e il 18esimo tricolore conquistato col Milan di Zlatan Ibrahimovic e Thiago Silva. Non la fotografia, però, di fronte alla quale può festeggiare la Serie A.

Antonio Conte non è il primo allenatore italiano che sente il bisogno di cimentarsi al di fuori dei confini italiani. Fabio Capello, Campione d'Italia col Milan nel lontano 1996, atto finale di 5 anni indimenticabili, la stagione successiva scelse la panchina del Real Madrid del presidente Lorenzo Sanz, col quale vinse immediatamente la Liga spagnola. Lo stesso Carlo Ancelotti, nel 2009, dopo i trionfi rossoneri, decise di lasciare il Milan per accettare l'offerta del Chelsea orfano dello Special One, irretito dal fascino inattaccabile della Premier League. Antonio Conte, però, al momento non avrebbe proposte dall'estero: a metà luglio, tutte le panchine sono assegnate. A meno che non sia intimamente attirato dalla guida tecnica della Nazionale italiana, vacante dopo le dimissioni irrevocabili di Cesare Prandelli, Il suo addio alla Juventus non è motivabile come l'effetto collaterale di una scelta dolorosa - continuare ad allenare in Italia o accogliere una sfida europea. Il suo addio alla Juventus è una dichiarazione di resa, un'ammissione franca e limpida di inadeguatezza ai più prestigiosi palcoscenici del Vecchio Continente, che non è soltanto della società bianconera, in assoluto la più moderna e lungimirante del nostro campionato (ma attenzione alla Roma), bensì anche (e soprattutto) del calcio italiano.

MODELLO COLCHONERO - Eppure, se tutto il ragionamento precedente si riconducesse esclusivamente alle disparità finanziarie, sarebbe l'ennesima posizione miope, rassicurante e soprattutto consolatoria che certamente non aiuterebbe il nostro movimento calcistico ad uscire da questa crisi senza fine. Gli esempi offerti dal Borussia Dortmund prima e dall'Atletico Madrid poi lo dimostrano in maniera lampante: investimenti mirati, scouting accorto, oculatezza e coraggio nel dare fiducia ai giovani ed infine un'organizzazione di gioco attenta e solida possono consentire di competere ai massimi livelli anche in assenza di spese faraoniche. Si potrà obiettare che nessuna delle due ha completate la propria impresa conquistando la coppa dalle grandi orecchie, eppure, mentre in Italia ci si pone come obiettivo soddisfacente il raggiungimento della fase ad eliminazione diretta, entrambe le precedenti sono arrivate all'atto conclusivo, lottando per la vittoria fino agli ultimi minuti. Anche quelle cessioni dolorose ma inevitabili che spesso fanno spazientire tifosi e allenatori tricolore, a partire proprio da Antonio Conte, per l'Atletico Madrid sono state un clamoroso punto di forza: da Sergio Aguero a Radamel Falcao a Diego Costa, i Colchoneros spesso hanno ceduto il loro trascinatore e sempre hanno trovato un sostituto all'altezza e a prezzi inferiori, potendo così utilizzare il disavanzo accumulato per rafforzare negli altri reparti il complesso di squadra.

L'imbarazzante gap economico che separa i top club italiani dalle superpotenze europee è sicuramente un dato oggettivo ma, tanto più alla luce del ciclo madrileno di Diego Simeone, non dev'essere una giustificazione. E' evidente che la Serie A non può più permettersi di acquistare campioni già fatti e finiti o importare i più fulgidi talenti europei - si pensi al colombiano James Rodriguez, ad esempio, 23enne capocannoniere al Mondiale brasiliano - ma ciò non significa che l'unica alternativa sia trasformare le società italiane in case di riposo per vecchie glorie ultratrentenni o elementi di caratura medio-bassa che, per quanto utili nel breve termine, hanno già raggiunto il loro massimo potenziale e potranno diventare presto zavorre pressochè incedibili. Se da una parte è vero che il campionato italiano non ha più la forza economica per riaprire l'invidiata gioielleria degli anni '80 e '90, per usare una terminologia cara all'Amministratore Delegato del Milan Adriano Galliani, dall'altra parte sta correndo sempre più manifestamente il rischio di trasformarsi in un cimitero degli elefanti, ultimo approdo sulla via del pensionamento e meta turistica per giocatori dal passato sconosciuto e dal futuro non radioso.

OCCASIONI - Sotto questa prospettiva, anche la paventata cessione di Arturo Vidal al Manchester United, una delle presunte concause dell'addio di Antonio Conte nonchè quasi certamente un punto di scontro fra allenatore e dirigenza, non deve essere interpretata esclusivamente in maniera negativa, come un passo indietro sulla via della crescita, bensì in modo propositivo, come l'opportunità di raccogliere i frutti di un investimento azzeccato ed ottenere fondi sufficienti sia ad acquistarne un degno sostituto sia a colmare un'altra lacuna in squadra. E' chiaro che replicare operazioni così delicate in maniera sistematica può mettere a repentaglio la continuità programmatica, dal momento che non si può avere la certezza che i nuovi acquisti rispettino perfettamente le attese, però la lezione dell'Atletico Madrid insegna che può essere un metodo vincente, a maggior ragione in mancanza di elargizioni con le mani bucate. Il punto finale è che, per adottarlo pienamente, occorrono premesse organizzative che al calcio italiano non appartengono ancora: strutture giovanili all'avanguardia, reti di osservazione estese e minuziose, managing societario d'alto profilo.

Recentemente, una delle operazioni di mercato che più s'avvicina a questa impostazione è stata la cessione del difensore centrale Marquinhos dalla Roma al Paris Saint-Germain: scoperto dal Direttore Sportivo Walter Sabatini, il brasiliano classe '94 è stato lanciato titolare dall'allenatore ceco Zdenek Zeman e, dopo un campionato brillante, è stato acquistato dalla società transalpina per 31.5 milioni di euro; con quella cifra il club capitolino ha poi provveduto ad acquisire il suo diretto sostituto - il 26enne marocchino Mehdi Benatia, dall'Udinese per 13.5 - quindi a rafforzare sensibilmente il centrocampo, prelevando dal PSV Eindhoven per 16.5 più bonus uno dei giovani centrocampisti più corteggiati d'Europa, l'olandese Kevin Strootman. La stessa condotta è stata poi replicata nel caso di Erik Lamela: dopo l'esplosione evidenziata nella stagione 2012/2013, durante la quale è stato autore di 15 gol, il trequartista argentino è stato ceduto ai londinesi del Tottenham per 30 milioni di euro più bonus, che il club giallorosso ha prontamente reinvestito per ricostruire il proprio attacco, col 22enne Adem Ljajic della Fiorentina (11 più bonus) e l'ivoriano Gervinho dell'Arsenal (8 milioni). In questo preciso momento storico la rotta da seguire, come testimoniato dai successi raccolti o sfiorati dell'Atletico Madrid, sarebbe questa: forse la Juventus non è ancora pronta, forse nemmeno sarebbe bastato ad Antonio Conte.