Sgomberiamo il campo da dubbi. Il calcio è business, non è terreno da lacrimuccie ed emozioni. Si contano i soldi, avidamente. Il football è macchina di mercato, articolata e complessa. Quel che gira intorno al panorama pallonaro è praticamente indecifrabile o meglio non conteggiabile. Cifre, zeri infiniti. Troppo, per noi comuni mortali. Eppure in quel vorticoso agglomerato di operazioni finanziarie, contratti, debiti, plusvalenze, c'era ancora spazio per un piccolo momento sentimentale. Sapevi che l'Inter era di Moratti. Di un tifoso, che imprecava, esultava, sbuffava, seduto sul suo consueto seggiolino, nella San Siro nerazzurra. Certo un petroliere, un imprenditore, ma non nel campo del calcio. Lì soprattutto un appassionato.

 

Da quando Pellegrini passò la mano a Moratti, 18 anni. Di successi, tonfi, trofei ed errori. Il mercato folle, l'inseguimento, quasi morboso, alla gloria paterna. La voglia di ricostruire l'Inter che fu del padre e del mago. Tutto per chiudere un cerchio. Dal fenomeno Ronaldo alla notte di Madrid. Attraverso Baggio e Mourinho. Comincia con l'approdo del fuoriclasse brasiliano la magia del Massimo nerazzurro. 48 miliardi per strapparlo al Barcellona e godersi le gesta di un attaccante irripetibile. Moratti e Ronaldo, binomio di luci e ombre. La Coppa Uefa e Ceccarini, gli infortuni e il 5 maggio. La guerra mediatica con la Juve e gli scudetti sfumati. Fino all'addio. L'inconciliabile rapporto con l'hombre vertical, Hector Cuper, e l'approdo del fenomeno al Real. La sofferenza di Moratti, un passionale, uomo dall'innamoramento istantaneo. Per Ronaldo e per il chino Recoba. Quel magico sinistro in grado di scalfire il cuore del Presidente. Poi Baggio. Piedi buoni e spettacolo. Pochi successi. Fino a Calciopoli.

 

Lì si svela l'arcano bianconero. Squilli di telefono, intimidazioni arbitrali, sim svizzere. Sistema Moggi. Da quelle ceneri diventa grande l'Inter morattiana, prima con Mancini poi con Mourinho. É il vate di Setubal, l'ultimo coupe de theatre, la favola destinata a chiudere una parabola iniziata nel lontano '95. Il portoghese orchestra lo scambio Ibra-Eto'o, più forte conguaglio ai nerazzurri, e costruisce la massima espressione di squadra. Convince tutti a lottare per un'unica causa. Solidifica un blocco di campioni, pronti a tutto. Cresce nei mesi il miracolo Inter. Esplode nella notte di Madrid. Moratti alza la Coppa più ambita. Riscopre la gioia, ricorda suo padre. Angelo batté le merengues, Massimo trionfa al Bernabeu. E lì capisce che la gloria, per quanto grande, può essere effimera. Lì vede scappare, sulla macchina di Florentino, l'amico Mourinho. Si rompe il giocattolo nerazzurro. Dall'altare si scende alla polvere.

 

I magnifici del triplete piano piano lasciano la Pinetina. Si passa da Leonardo a Ranieri, fino alla caduta di Stramaccioni. Il progetto riparte con Mazzarri. Non più con Moratti. Che esce, saluta e, con gli occhi lucidi, lascia poche parole “Non sarò più Presidente”. Arriva Thohir. Nasce l'Inter indonesiana. Affare da parecchi milioni. Due anni per ripianare e ricostruire. Idea giovane e vincente. Necessaria per restare al passo coi tempi. Per ampliare l'internazionalità del club, per aumentare un fatturato troppo esiguo, per tornare ai vertici. D'altronde è un business. Anche se abituarsi non sarà facile. Spezzare l'ultimo filo, quel cordone ombelicale che collegava il calcio alla passione, non può essere facile. Grazie Presidente.