There's something about 18 years, 18 is a good number, and today I retire from professional football

Si chiude un'era. In questi 18 anni la NFL ha cambiato faccia e uno dei suoi principali interpreti si ritira, segnando idealmente il passaggio. Peyton Manning è stato durante tutta la sua carriera l'uomo copertina di questa lega, uno dei personaggi principali e uno dei più amati dai tifosi. Al di là del lato tecnico, su cui si possono avere opinioni diverse, il lato umano è innegabilmente uno degli aspetti che hanno reso il #18 nativo della Louisiana così popolare.

Di norma i campioni della NFL sono semidèi, esseri sovraumani che conquistano il jet set e le copertine patinate, Manning no. È sì stato testimonial di grandi marchi, ma a differenza di altri (uno a caso: Tom Brady) ha girato spot per marchi popolari come Oreo o Papa John's. Da ciò si può intuire come il suo personaggio è sempre stato destinato ad unire, più che dividere gli appassionati. La sua carriera è stata costellata di successi, ma anche da fallimenti e momenti di sofferenza. La qualità più grande di Manning, non è il talento o le capacità fisiche, bensì il carattere e la forza interiore. Il delicatissimo intervento al collo nel 2011 compromise la sua sensibilità e la sua mobilità, addirittura nei primi workout non riusciva a tenere in mano la palla, figurarsi a lanciare. Con tenacia e sacrificio, nonostante fosse stato scaricato dai suoi Colts, riuscì a rientrare in campo, infrangere nuovi record e a ritornare al Super Bowl con Denver, vincendolo al secondo tentativo, storia di poche settimane fa.

Un grande campione e grande esempio, ma pur sempre umano e dunque anche gli scandali sono stati parte della sua vita. I casi delle violenze al college e degli ormoni della crescita lo hanno toccato duramente, ma Peyton non ha mai reagito, ha sempre mantenuto il massimo riserbo, restando lontano dai riflettori. Mai una parola fuori posto, mai gesti ecclatanti se non sul campo da football. Il suo comportamento gli ha permesso di non minare la fiducia concessagli dal grande pubblico. Grande pubblico che lo ha sempre difeso nonostante i risultati non brillantissimi nei playoff.

I record personali in regular season sono intoccabili (addirittura hanno una pagina dedicata su Wikipedia), ma il record in post season è zoppicante. È il solo starting quarter back ad avere il poco invidiabile score di 9 one and done. I peggiori in questa categoria si fermano a 4. Inoltre il conteggio di Super Bowl si è salvato grazie a questa ultima stagione, altrimenti sarebbe un triste 1-3, meno anelli del molto meno talentuoso fratello minore Eli. Qui il paragone con Tom Brady è impietoso, ma il figlio di Archie Manning non sarà ricordato per la sua propensione a fallire i grandi appuntamenti, sarà ricordato per aver cambiato il Gioco.

Manning con Elway e Kubiak | AP Photos/David Zabulowski
Manning con Elway e Kubiak | AP Photos/David Zabulowski

Peyton è entrato in una lega in cui dominavano i grandi e potenti running back e la lascia dominata dal passing game. La sua capacità di recapitare precisi e rapidi confetti, aiutata dalle modifiche regolamentari, ha per sempre modificato la percezione del football. I coach si sono sempre fidati della sua intelligenza sulla linea di scrimmage. Ci ricorderemo per sempre dei suoi rituali pre-snap e dei suoi audibles. Omaha! Sarà un'icona. John Elway ha detto di lui “abbiamo sempre creduto che la no-huddle fosse un gioco rapido, Peyton ha rivoluzionato tutto ciò. Diceva -sai, adesso andiamo là, ci prendiamo il nostro tempo, mi prendo il tempo per capire cosa stai facendo e colpisco le tue debolezze-”

Uno così non poteva che dare l'addio in grande stile. Durante la conferenza stampa ha ripercorso la proprio carriera indugiando sui momenti a lui più cari. “Nella mia prima partita NFL […] il quarterback avversario era il mio giocatore preferito dopo mio papà, Dan Marino, che sul primo terzo down dell'incontro lanciò per 25 iarde su uno skinny post. Fu il passaggio più incredibile che abbia mai visto.” Ha avuto parole di rispetto per chi per primo ha creduto in lui, Johnny Unitas: “spero che il vecchio numero 19 sia lassù e che sappia che ho tenuto duro, magari è anche un po' orgoglioso di me”. Ha ringraziato gli Indianapolis Colts e la loro gente “Indianapolis era una città di basket e corse automobilistiche ma non servito molto ai Colts per trasformare l'Indiana e la città in seguaci del football” e tutta l'organizzazione dei Denver Broncos, scherzando con John Elway. Infine si è ricordato di compagni e avversari ricordando sopratutto Brady e i Patriots, per concludere con i doverosi pensieri alla famiglia, senza perdere il senso dell'umorismo che lo ha sempre contraddistinto. “Papà sarà questa la tua ultima partita? -mi chiese Mosley- in quel momento ho pensato che Mort e Adam Schefter fossero arrivati sino a mio figlio di 5 anni pur di avere fonti per le notizie”. Infine ha citato la Bibbia. Dagli atti degli Apostoli 2 Timoteo 4:7 “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”.

“Beh, ho combattuto la mia buona battaglia, ho concluso il cammino nel fooball dopo 18 anni, è giunta l'ora. Dio vi benedica e Dio benedica il football”