Il 5 maggio bianconero
Il 5 maggio bianconero

Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,

muta pensando all'ultima
ora dell'uom fatale;
né sa quando una simile
orma di piè mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.

(Alessandro Manzoni, Il 5 maggio)

Inizia così l’ode scritta da Alessandro Manzoni in occasione della morte di Napoleone Bonaparte. Il 5 maggio del 1821. Data divenuta storica nella tradizione francese e chiave di volta di uno dei più celebri capolavori della letteratura appunto Il 5 maggio di manzoniana memoria.

Questa componimento ricalca anche i contorni di un’altra tragedia - sportiva - consumatasi non più di un decennio fa. Esattamente il 5 maggio del 2002. L’Olimpico di Roma si trasforma nell’isola di Sant’Elena. Bonaparte e l’Inter accomunati dallo stesso e identico destino, vittime sacrificali della sua ineluttabilità. Prima e dopo l’evento, i soliti rituali, spesso simbolici e irrimediabilmente destinati a passare alla storia: il segno della croce che lega Vieri e il petroliere Moratti, il fiume di lacrime in cui si infrangono i sogni di gloria del Fenomeno.

Come nello studio delle singole gestualità, si fotografano gli istanti. Gesti espressivi, immortalati dalla memoria storica di milioni di appassionati di calcio. Che in quel pomeriggio hanno assistito ad una delle più incredibili tragedie sportive di sempre. Ce ne sono state altre di simili. Tra quelle più storiche, l’acquitrino di Perugia in cui Collina smarrì il fischietto e la fatal Verona che sancì il tricolore a firma Maradona e Careca, il secondo all’ombra del Vesuvio. Ma il 5 maggio 2002 è avvolto da un alone di unicità.

Due bandiere: quella sventolante bianconera e quella immobile nerazzurra. Due storie e filosofie societarie agli antipodi: lo scettro del vincitore e il marchio di fabbrica del vinto. La Juventus e l’Inter, una domenica diversa dalle altre, e la dea bendata del pallone nei panni di giudice.

Quella data resta cerchiata in rosso sul calendario del calcio italiano. Gli dei della vittoria, allegri e liberi, volteggiano sul cielo limpido di Udine. Quelli della sconfitta, impietosi e inarrestabili, disegnano piroette sopra la Capitale. La Juventus di Marcello Lippi, con al seguito una flotta di tifosi accorsi da tutta Italia, fa visita ai friulani. Ronaldo, Cuper e Gresko, non tre nomi a caso, vengono ospitati tra le mura amiche della Lazio di Poborsky; Fiore e Stankovic (gli unici tre laziali dotati di un po' di spirito di abnegazione), sotto il sole cocente del gemellaggio. Al Friuli fischia Racalbuto, mentre Paparesta dirige l’incontro dell’Olimpico.

Pronti via, Trezeguet e Del Piero, tandem impareggiabile, trafiggono la difesa friulana. L’invito a Racalbuto è esplicito: può già fischiare la fine. Gli occhi e le orecchie sono rivolti a Roma.

All’Olimpico accade di tutto. Vieri apre le marcature e porta in vantaggio l’Inter. I 75.000 presenti già brindano, augurandosi di aver ipotecato il titolo. Ad eccezione di Moratti, che resta impassibile, si concede il segno della croce e si affida al suo dio. La Lazio non oppone alcuna resistenza. Gli uomini di Zaccheroni passeggiano in campo, neanche fosse Via dei Condotti. Ad un tratto, quasi a squarciare il velo della calma estrema, un sussulto d’orgoglio del trio Stankovic-Fiore-Poborsky: il primo dà il via all’azione, il centrocampista calabrese ne confeziona l’assist e il ceco trafigge l’incolpevole Toldo, reo di aver assunto due bodyguard del calibro di Materazzi e Gresko. Allo squillo di Poborsky risponde Di Biagio, con Fernando Couto a reggere la cornetta. E’ la rete del 2-1 che fa tornare immediatamente il sorriso sul volto dei tifosi nerazzurri, ma non su quello del patron Moratti. Che si lascia andare all’ennesimo segno della croce davanti alle telecamere.

Ad Udine si aspetta soltanto il fischio finale. Di Michele e compagni dimostrano di essere sprovvisti di armi e strategie per scalfire le torri difensive bianconere. All’Olimpico, invece, a pochi minuti dal duplice fischio, Fiore innesca Stankovic, che alza la palla in area di rigore. Cordoba spizza, la palla giunge dritta sul capo di Gresko, quest’ultimo la indirizza verso Toldo, facendosi sorprendere dall'imboscata di Poborsky. Il pareggio è servito e porta ancora la firma del centrocampista ceco. Tutto lo stadio è ammutolito, tranne un paio di raccattapalle sotto la Curva Nord.

Inizia il secondo tempo al Friuli, subito dopo a Roma. Cambiano i risultati sugli altri campi: la Lazio rientra inaspettatamente nella corsa alla Coppa Uefa grazie ai parziali di Bologna e Chievo. I tifosi laziali spezzano per qualche minuto le catene del gemellaggio e si riscoprono avversari dei compagni meneghini. Avversari lo diventano improvvisamente gli 11 in maglia biancoceleste. Punizione da fuori area per la squadra capitolina, calcia Fiore che mette un pallone ad altezza di Simeone. La difesa interista è ferma, statica come un grattacielo. Simeone insacca ma, avvalendosi della regola dell'ex, non esulta. Toldo pagherebbe per abbandonare i pali, se solo ne avesse facoltà e diritto.

Da realtà a sogno. Adesso all’Inter servono due gol. Un’impresa ardua per una squadra in evidente calo psicologico e in balìa dell’avversario. Da una parte, Poborsky  e Fiore, due indemoniati in mezzo ai santi; dall'altra Gresko, il maggior indiziato della débâcle nerazzurra. Nel frattempo il Bologna soccombe alle giocate di Roberto Baggio: per la Lazio si spalancano le autostrade dell’Europa. Cesar, subentrato allo stacanovista Stankovic, imperversa sulla fascia sinistra, sfruttando gli errori marchiani di capitan Zanetti, e mette una palla pennellata in area capitalizzabile sia da Simone Inzaghi che dall’onnipresente Gresko. Ma è il primo che ne approfitta: raccoglie il nullaosta certificato dal duo Materazzi-Gresko, e telecomanda la palla in fondo alla rete con non poca disinvoltura. E’ il 4-2. Un risultato che sancisce la fine dei giochi.

I tifosi juventini di tutta Italia, non solo quelli presenti ad Udine, gridano al miracolo. Le voci che giungono dall'Olimpico vengono accolte con incredulità mista a un irrefrenabile gaudio. Ora all’Inter servono addirittura tre gol per poter toccare con mano lo scudetto. Non ci crede più nessuno, neppure il più ottimista degli ottimisti. Neanche Tronchetti Provera, tantomeno Massimo Moratti. Figurarsi Ronaldo che, sostituito da Kallon, si lascia andare ad un pianto incontrollato, coprendosi il volto con la mano e isolandosi dal resto del mondo. Sarà l’ultima immagine del formidabile campione brasiliano con la maglia a strisce nere e azzurre.

Racalbuto avvicina il fischietto alla bocca, Paparesta scandisce i tre fischi finali. La Juventus della Triade è campione d’Italia per la 26esima volta dal 1897. La Roma, vittoriosa sul Torino, scavalca proprio l’Inter in classifica ed è seconda. Moratti è pallido in volto. E, ogni minuto che passa, assume le sembianze di una statua di cera. Medita. Ripercorrendo il passato, non può che faticare a metabolizzare il presente: 500 milioni di euro spesi, circa 88 giocatori acquistati e una decina di allenatori in 12 anni di gestione. Non deve essere per nulla divertente vedersi dipingere come un “perdente di successo”. Nonostante l’ennesima delusione, questa volta indigeribile, resterà comunque alla guida della società. C'è una promessa fatta a suo padre Angelo. Deve condurre l'Inter sulle più alte cime dei successi sportivi.

La storia ha voluto una data: il 5 maggio. E' stato, a detta dei più maliziosi, il seme gettato da qualcuno. Un seme che, di lì a poco - precisamente nel 2006, avrebbe prodotto i suoi primi frutti: lo tsunami Calciopoli e il terremoto sotto i piedi della società torinese. Malgrado ciò, nell’immaginario collettivo dei tifosi juventini, è la data di uno dei campionati più belli vinti dalla Vecchia Signora in più di un secolo di vita. Fu vera gloria? Ai posteri l'ardua sentenza.

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