La triste fine di una felice storia. Una tempesta perfetta a coprire il sole più luminoso dell'ultimo decennio tennistico. Il 2013 e la fine di un'era. Quella del più grande. Il tramonto di Roger Federer. Rinviato, predetto, scritto, studiato. Fino al Masters. Lì è riemersa la fiammella della speranza, della fiducia. Il boato della O2 Arena a ogni ingresso in campo. Fragoroso quanto quello di Basilea. Un patrimonio dello sport Roger, capace di veicolare consensi come nessun altro. Ha ritrovato nel torneo dei maestri fiducia e tranquillità. Non ha vinto, non era richiesto. Ha lasciato in semifinale contro la sua nemesi, Rafa Nadal, in una delle peggiori versioni di una rivalità bellissima, pregna di inquietudini e giochi mentali. Sconfitta lieve questa. Perché era stato nel girone che si erano scorti i segnali di crescita. Nole Djokovic, il futuro re di fine anno, aveva tremato al cospetto del vecchio monarca. Per due set meglio Roger, col suo gioco indecifrabile. Varietà, eleganza, classe. Al terzo, il previsto calo e il colpo da k.o del serbo. Poi la vittoria, netta, con un Gasquet apatico e l'affermazione, importante, con la torre di Tandil.

Proprio il successo con Del Potro ha sentenziato il ritorno di Federer. Una battaglia. Le scariche di Juan Martin contro l'arte di Roger. La potenza contro l'estrema ricerca del colpo più bello. Una sorta di conferma dopo il confronto di Bercy. Sì perché già prima di Londra avvisaglie di rinascita avevano pervaso di ottimismo il mondo del tennis. A Parigi, nell'ultimo Master 1000 di stagione, un buon Federer aveva sconfitto Del Potro, prima di arrendersi, lottando, contro Djokovic. Ancor prima Basilea, casa sua, e la finale, persa, nel primo atto del trittico svizzero-argentino. La Svizzera e le illusioni ancor poco accreditate, visto campo partenti e percorso. Ma Parigi e il Masters non mentono. Federer è ancora Federer. Semplicemente non può esserlo con l'impressionante regolarità che lo ha contraddistinto lungo una carriera inimitabile. Al suo meglio rivaleggia con Nadal e Djokovic, se scende di colpi, inevitabilmente, paga. Messaggio chiaro sono le ultime sfide coi rivali di ieri e di oggi. Finché il servizio ha accompagnato Roger, c'è stata partita, quasi predominio. Al calar delle percentuali sono emersi i problemi del tempo. Con lo scorrere delle lancette, Federer ha abbandonato sempre più la posizione d'attacco, lontano dalla riga di fondo, ha accettato lo scambio, incapace di accorciare la contesa. Lì è saltato. Imperativo, a 32 anni, con infinite sfide alle spalle, giocare il tutto per tutto ogni punto. All'attacco, a rete, rischiando. Per vincere ancora, o almeno sperare di poterlo fare.

Fisico e coach. Sono partiti da qui i problemi del Federer versione 2013. Dopo il Masters lo svizzero ha lasciato aperto ogni spiraglio per una futura guida tecnica. Piatti, ormai lontano da Gasquet, resta possibilità remota. Per ora si prosegue con Paganini, preparatore atletico, e Luthi, allenatore di Davis. Lasciato Annacone, Roger pensa al futuro, ma con calma. Senza fretta. Pensando a una preparazione adeguata, magari senza gli eventi mediatici e pubblicitari che han finito per condizionarne il rendimento e minarne il fisico. La schiena ha presentato il conto allo svizzero, costretto a giocare, spesso, in precarie condizioni. Dopo un buon inizio anno in Australia, col quarto strappato a Tsonga e l'uscita di scena in semi con Murray, sono arrivate delusioni in serie e anche nei tornei in cui ha raggiunto risultati rispettabili, come a Roma (finale con Nadal), non ha pienamente convinto (solo in seguito ha confessato difficoltà e patemi ai più già evidenti).

Negli Slam, solitamente habitat naturale, ha fallito malamente. La meteora Stakhovski ha chiuso al secondo turno l'avventura di Wimbledon, il suo “parcogiochi” preferito, il tempio del tennis, luogo di culto per neofiti e appassionati, dopo che Tsonga, in tre comodi set, aveva stroncato il suo cammino sulla terra di Francia. Ma la più inspiegabile debacle resta quella al quarto turno dell'Us Open con Robredo. Non tanto per il valore dell'avversario, onesto giocatore, quanto per il Federer che ha calcato quel giorno Flushing Meadows. Vittima di se stesso. Di dubbi e incertezze. Accartocciato in una serie di snodi interiori indecifrabili. Lì anche lui ha capito che occorreva fermarsi. Ricostruire partendo dalle certezze. Via il nuovo attrezzo, fonte di insicurezze. Niente prove rivoluzionarie. Ritorno all'antico. Da lì, messo a nuovo, ha riacceso i motori. Pensando al 2014. All'ultima volata, all'ultimo giro di valzer, concesso solo ai più grandi. Un'immagine, una pietra da lasciare ai posteri, prima di chiudere il tubetto di palline e appoggiare la racchetta, salutando col sorriso, timido, ancora una volta. Non poteva certo bastare un trionfo ad Halle (l'unico del 2013), luogo in cui è accostato a una divinità, per chiudere il cerchio di una parabola, che attende i fuochi d'artificio finali.

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Johnathan Scaffardi
Lo sport come ragione di vita, il giornalismo sportivo come sogno, leggere libri e scrivere i piaceri che mi concedo