"Back the Brits", questo lo slogan di incitamento alla propria squadra durante la finale di Coppa Davis contro il Belgio dei supporters del Regno Unito, ansiosi di dimostrare al mondo intero che sì, i britannici erano tornati a fare la voce grossa anche nel panorama tennistico internazionale. E se oggi - il giorno dopo la conquista della storica insalatiera - l'espressione Gran Bretagna non è solo una denominazione geografica, ma un'indicazione piena di significato, il merito è tutto di Andy Murray, il ventottenne scozzese che ha ridisegnato i confini del tennis di Sua Maestà. Guardato dapprima con sospetto per le sue origini non inglesi (il ragazzo è cresciuto a Dunblane, poco lontano da Glasgow), il buon Andy si è conquistato a fatica il rispetto e il sostegno di una nazione intera, riuscendo a scrivere pagine nuove e indimenticabili nel libro ingiallito della storia del gioco del regno dei Tre Leoni, conquistando un oro olimpico in singolare nei Giochi estivi di casa (Londra 2012), prima di rompere il ghiaccio anche nei tornei dello Slam (Us Open dello stesso anno) e di tornare a far sventolare l'Union Jack sull'erba di Wimbledon per la prima volta dai tempi di Fred Perry (anni '30 del secolo scorso).

Ora che ha conquistato anche la Coppa Davis, trascinando una squadra che senza di lui con tutta probabilità non sarebbe nemmeno all'interno del World Group, Murray può definitivamente considerarsi l'uomo della rinascita del tennis britannico. Abituati a giocatori da erba, come l'oxfordiano Tim Henman, talento troppo leggero per trionfare ai Championships - ma in compenso amatissimo dal pubblico londinese, al punto di intitolargli lo spazio antistante il campo n. 1, Henman Hill appunto, ora ribattezzato Murray Mountain - i tifosi inglesi hanno inizialmente faticato nel riconoscersi in questo ragazzotto scozzese dai modi un po' bruschi e dal gioco molto diverso da quello degli specialisti del Regno. Niente serve and volley per Andy, nè chip and charge, ma solo tanta profondità e incisività nei colpi di rimbalzo, con una discreta prima di servizio e una seconda molto migliorata nel corso della carriera. Il tennis di Murray è apparso subito come l'epitome dell'evoluzione del gioco dei primi anni Duemila, fatto di solidità tecnica e atletica, senza badare troppo allo stile e - nel suo caso - alla tradizione. A Bangkok nel 2005 (fresco diciottenne) la prima finale Atp persa, contro Roger Federer, all'alba di un dualismo in realtà mai sbocciato pienamente, prima di cominciare a conquistare titoli in successione dal 2008 in poi, preferibilmente sul cemento (il primo trionfo sull'erba sarebbe arrivato al Queen's solo nel 2009). Il tutto in un inizio di carriera folgorante, condito da una finale Slam raggiunta a 21 anni, k.o. ancora con Federer a Flushing Meadows edizione 2008.

Entrato quindi stabilmente a far parte dell'èlite dei Fab Four (in buona compagnia, con Federer, Nadal e Djokovic), per essere tuttavia sempre considerato l'ultimo del quartetto, lo scozzese ha dovuto attendere molto prima di potersi regalare la gioia di uno Slam. In mezzo delusioni e sconfitte cocenti, in Australia come sul giardino di casa (altrui, a dire il vero) di Wimbledon, dove nel 2012 fu rimontato in finale in una delle ultime giornate di gloria di Federer, e costretto alle lacrime in diretta mondiale, per la prima volta espressione di un volto umano troppo spesso celato agli occhi del grande pubblico. Lacrime che contribuirono a renderlo più simpatico a tutti gli appassionati di tennis. Già, perchè Andy, tra intemperanze caratteriali e atteggiamenti in campo da eterno sconsolato, non ha mai goduto dell'appoggio di una parte ben riconoscibile del pubblico della racchetta, viceversa immedesimatosi nella classe di Federer, nella determinazione di Nadal e infine nella mostruosa solidità di Djokovic. A un mese di distanza da quella sconfitta ai Championships, Murray sarebbe tornato a varcare i cancelli di Church Road per vincere il torneo olimpico in singolare di Londra 2012, prendendosi la rivincita in finale sul fuoriclasse svizzero, provato dalle fatiche della semi vinta in modalità maratona contro Del Potro. Al primo mattoncino seguì poi il successo agli Us Open contro il coataneo Djokovic, riportando la Gran Bretagna alla vittoria di uno Slam dopo decenni di anonimato (l'ultima vittoria di un'atleta britannica risaliva al lontano 1977, quando Virginia Wade conquistò l'edizione femminile del centenario dei Championships).

Sempre contro Nole Murray riuscì l'anno successivo a togliersi il peso di dover vincere a tutti i costi Wimbledon, tornando a far assaporare ai britannici il gusto di trionfare sull'erba di casa, prima di imboccare un tunnel fatto di infortuni e passi indietro, da cui è uscito solo in questo 2015, anno del riscatto e della riscossa ad alti livelli. Fino ad arrivare a ieri, completando un'impresa clamorosa e impronosticabile alla vigilia: condurre la squadra di Davis a conquistare l'insalatiera più famosa del mondo, praticamente solo contro tutti, nonostante l'appoggio in doppio del fratello maggiore Jamie, mancino costruitosi una carriera solo come specialista di una disciplina sempre meno in voga nel tennis contemporaneo. Stati Uniti, Francia e Australia (non le corazzate di un tempo, a dire il vero) si sono arrese davanti alla voglia di vincere di questo scozzese purissimo, schieratosi con coraggio dalla parte degli indipendentisti nel referendum dello scorso autunno vinto poi dai "lealisti". Murray rimane probabilmente il quarto Fab del tennis mondiale, incapace di raggiungere con continuità i picchi dei suoi incredibili compagni di viaggio, ma da ieri si è definitivamente consegnato ai libri di storia patria, riuscendo ad emergere anche in mezzo ai giganti della sua generazione, gli stessi che gli hanno consentito di migliorare in maniera esponenziale il suo tennis, fino a fargli collezionare successi di assoluto prestigio, come l'incredibile impresa portata a termine sulla terra rossa di Gand nell'ultima domenica della stagione 2015.