Usain Bolt spegne le luci. I fari dell'Atletica rincorrono Usain e il giamaicano si sottrae. Resta in silenzio Bolt, chiuso tra le sacre mura del campo d'allenamento. L'ultimo, con il fido Mills, porta alla decisione di rinunciare ai 100, ai Trials giamaicani.

L'ultima immagine di Bolt riporta a New York, l'azione pesante, indurita, fiacca. Nel Bolt di questi mesi non c'è nulla del vero Bolt. L'atteggiamento è meno guascone, la mimica pone un velo sul punto interrogativo che a tratti compare sotto la maschera di facciata. La corsa è colma di incertezze, c'è una mano invisibile che trattiene il giamaicano.

Bolt è la rivoluzione, l'uomo in grado di spostare i limiti, di riscrivere libri e storia. C'è l'Atletica prima e dopo Bolt, ma i successi hanno un peso importante, le motivazioni decidono vinti e vincitori. Bolt è un atleta che ama la gente, ama la sfida, ma oggi non riesce a ricostruirsi, a spingersi nuovamente oltre un determinato punto.

In passato, al cospetto di un grande evento, Bolt è sempre riuscito a chiudere la porta, respingendo spifferi e voci, per presentarsi all'appuntamento tirato a lucido. Quest'anno la sensazione è che la velocità sia a un punto cruciale, perché il vento americano soffia in direzione contraria alla progressione di Bolt. Gatlin è spocchioso, talvolta incline all'esagerazione, ma è in una condizione superba, da mesi. Bolt evita Gatlin, perché sa di non poterlo battere ora e sa di rischiare anche con connazionali come Powell.

Il Bolt primatista, il Bolt veloce, è bello a vedersi, perché ha una falcata ampia, lunga, una progressione irresistibile, questo è come ingolfato, il motore non gira a pieno regime, si incarta, come se qualcosa non funzionasse. A New York, prima ancora a Ostrava, un appannamento evidente. Ora Parigi e Losanna, 100 e 200, Pechino, il Mondiale, ad agosto, per tornare Bolt, contro Gatlin, spalla a spalla, la sensazione giamaicana contro il ritorno statunitense, il re sente scricchiolare il trono, ma è il re.