C'era una volta Usain l'Alieno. Quello che stroncava gli avversari dopo pochi metri e si godeva il resto della corsa passeggiando, mentre dietro di lui invano gli altri si affannavano nella lotta per le altre medaglie. Quello che, anche con una scarpa slacciata, volava leggero sul tartan di Pechino a firmare un record del Mondo da stropicciarsi gli occhi.

Già, Pechino. Laddove la sua leggenda ebbe inizio e laddove, ieri, ne ha posto un ulteriore mattone. Nella velocità pura nessuno come questo gigante giamaicano, che di cognome fa Bolt e di professione fa - per coerenza - l'uomo più veloce del Mondo. Imbattibile per qualsiasi avversario, atterrato solo da sè stesso e da una partenza falsa a Daegu, anno di disgrazia boltiana 2011. Ma anche allora, trovò il modo di catalizzare l'attenzione su di sè: la caduta del Re faceva più rumore dell'ascesa del delfino Johan Blake, medaglia d'oro e candidato sfidante da lì a qualche anno. Respinto con perdite, ovviamente, prima che una serie di infortuni completassero l'opera e spegnessero il fuoco di paglia.

Ma l'ultima gemma iridata del Fulmine ha un sapore speciale. Per lui, innanzitutto, perchè spazza vie le nubi che fino a qualche tempo fa gli si erano addensate attorno: gli infortuni, la condizione precaria, i dubbi sulla sua condizione. Mentre alle sue spalle, una muta assatanata di avversari che, fiutata la difficoltà del re, si stava organizzando per provare il golpe: l'eterno rivale, nonché connazionale,  Asafa Powell, e gli americani Tyson Gay e Justin Gatlin, la cui carrierà è macchiata da una lunga squalifica per doping. Quest'ultimo sembrava il rivale più accreditato per riuscire nell'impresa, ma sul più bello, il giocattolo prezioso gli è sfuggito di mano ed è finito dritto dritto al collo del rivale. Bolt all'improvviso si scopre vulnerabile: la semifinale riacciuffata per i capelli dopo una partenza in cui quasi era sembrato inciampare, il ruggito possente di un Gatlin che nella batteria successiva griffava il miglior tempo e lanciava la sfida finale, con la baldanzosa spavalderia di chi sapeva già di avere il gatto nel sacco.

Come è andata a finire è storia nota, ma quello che colpisce di più della gara cinese è la nuova dimensione di questo infinito campione, patrimonio unanime dello sport. L'Alieno si riscopre umano, fa i conti con dubbi e paure, mette la testa laddove il fisico sembra non arrivare. Lotta e sgomita in quell'arena che era solito abbandonare dopo pochi passi, per volare ali ai piedi verso la gloria e godersi, dall'alto del suo mentro e e 95 centimetri la bagarre per decidere chi dovesse meritarsi l'onore di accompagnarlo sul podio. Ma alla fine il risultato non cambia: lassù, sul trono dei 100 metri piani, c'è ancora Usain Bolt. Per un centesimo. Quello che Gatlin dissemina negli ultimi incerti passi, assieme alla sua sicurezza che pian piano ma inesorabilmente si sgretola, picconata dalla personalità del velocista più grande di tutti i tempi. 

E pazienza se sul proscenio iridato ci si deve accontentare della sua versione terrestre: E.T lo attendiamo fra un anno, giorno più giorno meno, sul tarmac olimpico di Rio De Janeiro.