Louisville, 1954. Il ritmo della pedalata era scostante. La catena girava a scatti agganciata all’ingranaggio, le gambe di un ragazzino di dodici anni cercavano di domare la sua nuova bici. Sessanta dollari gli era costata quella schwinn bianca e rossa che cercava di dirigere verso il Columbia Auditorium, alla periferia di Louisville. L’amichetto che andava con lui alla ricerca di popcorn e gelati da scroccare rideva di quella pedalata sgarruppata. Era ottobre, il tempo non aiutava; la ricompensa peró era dietro l’angolo, come si sarebbe reso conto piú avanti, pronta per essere reclamata.

Quei popcorn erano costati caro al giovane Cassius Clay. All’uscita dall’auditorium la sua bicicletta nuova era sparita. Anni piú tardi, chissà se ancora ci pensava Mohammed Alì, mentre a Houston, nel febbraio del 1967, sfigurava per 15 riprese il volto di Ernie Terrel, che si rifiutava di chiamarlo con il nome che aveva ormai adottato da tre anni, dopo aver battuto Sonny Liston per la seconda volta ed essere diventato campione del mondo. Ottanta giorni dopo aver rifiutato la chiamata alle armi.

Affranto per il furto della sua bici, il piccolo Cassius si diresse trattenendo le lacrime verso la palestra di pugilato del poliziotto Joe Martin. Attraversata la porta metallica si rese subito conto della differenza di temperatura di quella sala oscura rispetto all’esterno. Rimase come paralizzato. Svaniva ciò che aveva appena vissuto. Il rumore gli sembrava in qualche modo familiare, simile a quello che produceva la sua vecchia bici, quella che aveva messo da parte per far posto alla sua schwinn, ormai perduta.

Le corde sbattevano a terra, con un ritmo che avrebbe segnato ogni settimana seguente, per il resto della sua vita. C’era di piú. Attonito, osservava uomini colpire le pere appese al soffitto, trasformandole in scie che disegnavano un semicerchio, mentre altri picchiavano e prendevano a pugni enormi sacchi, deformandoli e costringendo ad indietreggiare chi li reggeva. Un misto di terrore e attrazione, che svanì quando i suoi occhi incrociarono l’ombra del poliziotto.

Cercando di nascondere la tristezza e le lacrime con la rabbia, il piccolo esigeva furibondo che l’agente andasse a cercare il ladro per fargliela pagare. “Per caso sai combattere?” gli chiese Martin con il sorriso tipico di un uomo adulto che cerca di farsi spazio nel cuore di un bambino arrabbiato. Indietreggiando come se quella domanda fosse stata un jab, Clay rispose per la prima volta con quell’arroganza che sará il suo segno d’identitá: “No, ma combatterò lo stesso!”

Grazie ai suoi piedi da ballerino e a quella lingua lunga Mohammed Alì diventerá il pugile piú conosciuto di tutti i tempi, facendo a pezzi le convenzioni sulla segregazione che fino a quel momento avevano retto nella societá americana. Influenzabile e convincente allo stesso tempo. Testardo e impegnato. Il suo lascito fu una rottura con la morale dell’epoca raggiunta attraverso una dolorosa sinceritá e la controversia, con la stessa forza con cui il suo destro colpì per due volte George Foreman, aiutandolo a riconquistare il titolo mondiale dei pesi massimi e a completare il suo percorso e a completare la catarsi.

La sua ultima apparizione pubblica è stata il 15 ottobre dello scorso anno. The Greatest si recò a Philadelphia per incrociare i guantoni col migliore dei suoi avversari, Joe Frazier. Come uno scherzo del destino, il Parkinson aveva giá da tempo segnato il suo corpo e quei movimenti rapidi e prosciugato il fiume di parole che aveva contribuito a creare la sua leggenda, restituendogli in parte quella goffaggine che mostrava in sella a quella bici nuova.

“Con la morte di Frazier il mondo perde un gran campione e una persona straordinaria”. Le sue parole toglievano ogni dubbio riguardo al possibile rancore esistente tra i due miti, e dimostravano che la malattia e l’inesorabile trascorso di 70 anni erano riusciti a frenare l’infiammabile personalità di Alí fino a levigarla e a renderlo qualcosa di piú di un simbolo: un esempio.

Il ricordo di Rino Tommasi sul leggendario match di Kinshasa del 1974 tra Alì e Foreman:

Come andò quel viaggio a Kinshasa?

Ho rischiato di rimanere in Zaire un mese; il match era stato rinviato per una ferita rimediata da Foreman in allenamento ed io venni informato quando praticamente ero giá sull'aereo. Per fortuna ho fatto in tempo a scendere e rinviare il viaggio. Fu un match unico per varie ragioni. Si combattè alle 4 di notte per le esigenze della TV americana, che poteva trasmetterlo in diretta ad un orario appetibile (le 22.00 e.t., ndr).

E' stato il miglior match di Alì cui ha assistito?

Non so se sia stato il migliore. Io trovai migliore dal punto di vista pugilistico la prima delle tre sfide tra Frazier e Alì. Ciò che rese indimenticabile il combattimento di Kinshasa fu l'ambiente molto particolare e queste 20.000 persone che gridavano "Alì, buma ye!" ovvero "Alì, uccidilo!". In quel mese di rinvio Alì riuscì a farsi amici gli africani.

Invece Foreman non connettò con il pubblico...

No, per niente. Foreman ancora oggi non vuol sentir parlare di quel match: Alì riuscì a suggestionare il pubblico e di conseguenza anche Foreman ne risentì. Fu una strategia psicologica che funzionó alla perfezione: inoltre Alì lasciò che Foreman si sfogasse per sette riprese prima di trovare il destro vincente. Ha lasciato che Foreman si stancasse e poi lo ha steso.

Come fu possibile organizzare un combattimento in un paese come lo Zaire?

E' stato un evento unico. Sono stato anche in Sudafrica a vedere un combattimento di Tate, ma il Sudafrica è un caso a parte. Quella volta il governo del Zaire si fece convincere dagli organizzatori che il match avrebbe messo il paese sulla carta geografica, dandogli notorietá. Per i pugili non fu un problema, bastava che ci fossero i soldi.

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