Facciamo qualche pedalata all’indietro: è la metà di luglio 2013 in una mattina d’inizio settimana. La seconda giornata di riposo al Giro di Francia. Christopher Froome (è l’anno dei Christopher) siede davanti a un numero enorme di giornalisti. Quasi un centinaio. Il giorno precedente, sul Mont Ventoux, l’atleta del Team Sky ha fatto capire che solo lui può perdere il Tour, ‘spazzolando’ i diretti avversari della classifica generale da Rodriguez, a Contador, a Quintana. I giornalisti presenti, tramite le loro domande, trasmettono una (non troppo) velata incredulità, quasi scetticismo, per le prestazioni dell’uomo in giallo che hanno in quel momento davanti.

Mai vista prima d’ora una diffidenza così forte verso un’altleta, ed espressa in maniera così diretta, da quelle stesse persone che dovrebbero raccontarne al mondo le imprese. Quasi tutte le domande fatte a Froome sono legate ai suoi metodi d’allenamento: al come ti alleni e quanto, e spunta anche un’accenno a Lance Armstrong. È troppo. Chris si alza e se ne va dopo 15 minuti di aria pesante, antipatica, forse immeritata (speriamo di si), di certo inaspettata per lui ed il Team Sky.

Adesso però viene il bello. Si perché quando un’atleta di 42 anni si mette dietro gente che viaggia a più d’un decennio d’anni di meno (Vincenzo Nibali è classe ‘84), e gli arriva davanti rispondendo colpo su colpo, in una Vuelta con 11 arrivi in salita, la curiositá aumenta. Perché dietro a questo atleta non c’è la scienza quasi esatta di Sky (anche se l’americano della Radioshack ha come capo Luca Guercilena, che attualmente è forse il miglior Team Manager al mondo). Christopher Horner è un ciclista in gamba, uno di valore, ma vederlo mettere in riga Valverde, Nibali, Rodriguez ti lascia con poche parole. La sensazione che ne scaturisce è forse definibile come un misto d’incredulità e ammirazione. Però ripensando al Froome del Tour, ed i sospetti che gli sono cresciuti attorno, cosa si dovrebbe scrivere di Horner, 13 anni più vecchio?  

Cattiveria? No di certo. Il fatto è che la paura di essere imbrogliati adesso non la nascondi più, non la tieni per te. Perché sei stanco, sei stufo marcio d’essere preso in giro. E la diffidenza patita da Froome sulla sua pelle durante il Tour – o anche quella verso Usain Bolt ai Mondiali d’atletica di Mosca – ormai sarà cosa che molti vincitori dovranno tener sempre presente possa farsi viva con una domanda antipatica.

La storia d’oggi ci dice che la Vuelta di Spagna 2013 è entrata negli annali grazie ad un ultraquarantenne che ha battuto la sua futura generazione ciclistica. Che il giorno in cui lo statunitense ha praticamente vinto il Giro di Spagna – sabato, con la scalata sull’Alto de l’Angliru – un ciclista che poteva essere suo figlio (22 anni) ha vinto la tappa. Speriamo che la vittoria di Horner sia una favola. Che la storia di questa Vuelta si fermi qui e che non ci siano altri capitoli extra. Con il sorriso di un ciclista che a tavola sembra un ragazzino dodicenne divorando merendine, bevendo coca-cola come fosse acqua e gli hamburger non si contano. Per come vediamo il ciclismo noi italiani è roba tutta da ridere.      

  

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