Chiamatela come volete, Regina delle Classiche, la Classica delle Pietre, o più semplicemente la Roubaix. Ma la corsa che conduce i corridori da Compiegne, periferia di Parigi, a uno sperduto velodromo di una cittadina al confine del Belgio, è e rimane per i grandi appassionati di ciclismo l'Inferno del Nord. Quegli oltre 250 chilometri percorsi in mezzo a stradine in pavè di campagna, più adatte al transito di trattori che non di biciclette, rappresentano lo spettacolo più affascinante che il ciclismo possa offrire. 

Ha qualcosa di pioneristico, la Roubaix. Di eroico, al punto che al vincitore viene riservato come trofeo proprio una delle pietre dei suoi ventisette settori di pavè. Non il normale ciottolato in sampietrini, ma veri e propri massi che compongono tratti sconnessi e pericolosi, dove una foratura può mandare all'aria mesi di allenamento. C'è chi la ama e chi la odia. Tra questi ultimi, il bretone più famoso della storia del ciclismo, quel Bernard Hinault che la considerava una sorta di corrida da biker o ciclocrossisti, e che dopo essere stato costretto a parteciparvi, la vinse per non tornarci mai più. Tra i primi invece Roger de Vlaeminck, il belga soprannominato Monsieur Roubaix, per il particolarissimo feeling con questa corsa, vinta quattro volte e con un totale di nove podi all'attivo. Come Francesco Moser e il rimpianto Franco Ballerini, per rimanere tra gli italiani. E la Roubaix è stata infatti per decenni anche la classica degli azzurri, che nel velodromo più famoso al mondo hanno trionfato con corridori del calibro di Fausto Coppi, Felice Gimondi e Andrea Tafi, ultimo a sventolare il tricolore nell'Inferno del Nord, anno di grazia 1999. Da allora, diciassette anni senza un successo, mentre i belgi continuavano a far incetta di vittorie, trovando in Tom Boonen il degno erede di un grandissimo come Johan Museeuw (Tornado Tom è a quota quattro trionfi, di cui l'ultimo, nel 2012, leggendario, con una cavalcata solitaria di oltre quaranta chilometri).

Spesso sono le condizioni climatiche a rendere la Roubaix letteralmente infernale: con la pioggia il tracciato si trasforma in un agglomerato di fanghiglia che accentua il pericolo di cadute, mentre con il sole è la polvere a rendere l'ambiente ancor più caratteristico, con i corridori a sollevare un polverone nei settori più duri. Già, perchè la Roubaix si divide in tratti di pavè, contrassegnati da un certo numero di stelle a sottolinearne la difficoltà. Il primo vero ostacolo è la Foresta di Arenberg, 2.4 km nei quali la corsa comincia a decidersi, dove si capisce chi non potrà vincerla. Poi i tratti di Mons-en-Pevel e del Carrefour de l'Arbre, ultimi trampolini per chi riesca a fare la differenza dopo oltre 200 km di vibrazioni, botte e polvere. Il tutto per giungere nel velodromo dove è situata la linea d'arrivo, un giro e mezzo di pista che può rappresentare la passerella finale per il trionfatore solitario o il palcoscenico drammatico per una volata a ranghi ristretti. E' una corsa che vale una carriera, inseguita da molti (si pensi a George Hincapie o a Filippo Pozzato, per rimanere nell'ultimo quindicennio) ma domata da pochi, un èlite ristretta di fuoriclasse, tra cui ovviamente anche lo svizzero Fabian Cancellara, tra i grandi favoriti anche dell'edizione di domenica. Fino a qualche anno fa la Roubaix costituiva l'ultima fermata della cosiddetta settimana santa del ciclismo, che iniziava con il Giro delle Fiandre e proseguiva con la Gand-Wevelgem. Ora le tre classiche sono più staccate nel calendario, ma l'impresa di centrare una doppietta o addirittura una tripletta rimane il sogno dei grandi protagonisti del panorama internazionale. Solo Rik Van Looy e Tom Boonen sono riusciti nel magico tris, in attesa che un ventiseienne slovacco in maglia iridata non estragga dal cilindro l'ennesimo coniglio della sua giovane carriera.

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Andrea Russo Spena
Laureato in giurisprudenza, con una passione senza confini per lo sport. [email protected]