Quanto può essere affascinante una città come New Orleans, dove la frenetica vita alla “american way” si tramuta nei locali più scuri e nascosti in un insieme di note lanciate in un flusso di coscienza che prende forma nella musica, e prima diventa spigoloso e poi armonioso. Storie di jazz, come storie di vita a New Orleans, dove per la prima volta un giocatore di nome Rajon Rondo vede i suoi sogni diventare realtà: la possibilità di far parte di un team All-Star, certo non ancora quello dei grandi maestri del basket; in quell’occasione la partita tra i rookies e i cosiddetti sophomores. Rondo fa parte dei secondi, il suo primo anno infatti viene oscurato dalla presenza di un playmaker che non gli concede di dimostrare subito le sue qualità da rookie.

L’anno successivo le cose cambiano, i Boston Celtics di allora decidono di consegnare le chiavi dell’attacco proprio a lui, quel ragazzino che tra i colossi si fa spazio e inventa passaggi impensabili per i compagni. Si perché Rajon non è mai stato un tiratore, né uno scorer in generale, con le difese a distanza nell'intento di concedergli tiri aperti proprio per la sua scarsa capacità di concludere. Le sue qualità si focalizzano tutte su un gioco da playmaker in stile puro, con grandi doti di palleggio e di scarico, e solo con queste dimostra di colmare tutte le mancanze che vi erano - e sono - in zona realizzativa. Il tocco in più arriva dalla sua inventiva, dalla magia dei suoi scarichi, mai banali e mai percettibili. Tutti sanno che sta per passare quel pallone, ma nessuno sa mai dove e come.

Le soddisfazioni in quel di Boston arrivano, nonostante un avversario non proprio alla portata di tutti: Kobe Bryant. Sono i famosi anni dei grandi duelli tra i Boston Celtics di Rondo, Ray Allen e Kevin Garnett, in contrasto con i Los Angeles Lakers di Kobe, Pau Gasol e Derek Fisher; i verdi contro i gialli si era soliti dire in infanzia. Anche il titolo di campioni non può esimersi di entrare nella bacheca di questi giocatori, nonostante a tanti nomi abbia spezzato il cuore più di una volta. Corre l’anno 2008 e il Larry O’Brien Trophy si aggiunge ai traguardi di quei Celtics spietati.

Certo, quando si pensa a Rondo il collegamento naturale è con i Boston Celtics. Da lì in poi, però, lo smarrimento: Dallas Mavericks, Sacramento Kings, Chicago Bulls, nessuna città sembrava far tornare il giocatore alla sua condizione iniziale, alla serenità di quei giorni in cui i suoi passaggi illuminavano il TD Garden. Ciò che ha vissuto a Boston è unico e sembra non riuscire a proiettarlo in nessun altro contesto. Litigi con i compagni, con gli allenatori, Rajon pare essere diventato un punto nero nello spogliatoio. Così lo perdi dai radar, non ti chiedi nemmeno più dove giochi: “Si ma Rondo?”, “Non saprei, probabilmente rilegato a qualche panchina, in qualche squadra”. Poi durante l’estate del 2017 la notizia: approda ai New Orleans Pelicans, giocherà con Anthony Davis e DeMarcus Cousins.

Sulle prime non c'è la convinzione dell’ennesima destinazione del pluri All-Star, poi il pensiero va alla free agency nella quale ci sono molti nomi di un certo rilievo da tenere d’occhio. Motivo per il quale il trasferimento di Rondo passa in secondo piano, si fa poco caso alle sue partite, alle statistiche, perché ormai nella testa dei più è finito tra i veterani che hanno già dato troppo in passato e daranno poco in futuro. Eppure Rajon Rondo non è nemmeno così vecchio: ha 32 anni e quindi solamente uno in meno di LeBron James per fare un esempio. Durante la stagione balzano all'occhio le prestazioni di Victor Oladipo, ci si focalizza su James che gioca la sua quindicesima stagione come se fosse la terza, l'attenzione vira su Ben Simmons e sulla sua esplosione sul parquet; poi c'è Rondo, che la sera prima distribuisce 25 confetti, chiamati comunemente assist, per i compagni; allora scappa un sorriso e torna la consapevolezza che anche lui sia in grado di tornare ai vecchi livelli di tanto in tanto.

Rajon Rondo in tutto questo lasso temporale è stato a lavorare su sé stesso, cercando di migliorare ancora di più il suo gioco, trovando finalmente un ambiente che lo facesse sentire a casa, come in quella Boston ormai lontana. Da New Orleans sembra ricominciare tutto, come quella prima volta in una casacca All-Star, come quelle note jazz nate in una città che ha fatto crescere smisurati dettagli della cultura americana. Rondo ama quella palla a spicchi, ma ancor di più ama distribuirla agli altri e farli segnare, gioca e giocherà sempre per i compagni. Una delle caratteristiche più rare o forse quasi estinte nel basket moderno, dove l’individualità sembra essere diventato il centro focale.

Rajon è disposto a rinunciare a sé stesso per i compagni, è disposto a non mettere a referto nemmeno un punto se un compagno è posizionato meglio di lui; non a caso si finisce con il diventare uno degli unici giocatori ad aver giocato una partita di playoffs con più di 20 assist a referto: lui, John Stockton e Magic Johnson. Con l’ultima partita infatti Rajon Rondo è entrato in questo esclusivo club di Hall Of Famers: 21 assist distribuiti nella vittoria arrivata contro i Golden State Warriors, i campioni in carica che si sono dovuti piegare alla tradizione mischiata al futuro, che in questo caso è la colonna d’attacco Anthony Davis. E così si finisce per innamorarsi nuovamente di un Rondo ritrovato, di un giocatore del quale ormai le caratteristiche si credevano perse o sepolte da qualche parte. Invece il numero nove è sempre stato lì, aspettava solo di trovare il posto giusto, che lo accogliesse a braccia aperte; New Orleans ha chiamato, lui ha suonato. E siamo speranzosi di vedere altre sinfonie in quel campo che gli appartiene ancora.