“Sono orgoglioso di quanto sono riuscito a fare.” Grant Hill.

 

“Il mio periodo nel basket professionistico è stata un'avventura incredibile che dopo 19 anni deve finire” Jason Kidd.

 

Lasciano così, quarantenni, a poche ore di distanza. Lasciano un vuoto. Come solo le leggende. Ci sono atleti che guardi e inspiegabilmente tendi a reputare immortali. Non ti balena nella mente l'idea di un loro possibile ritiro, così che resti come impietrito, quando d'improvviso vieni colpito, come da un vento improvviso, dalla notizia. Un pezzo di storia, impregnato di leggenda, saluta il basket professionistico americano. Nel paese a stelle e strisce, dove la pallacanestro è più di uno sport, quasi una religione, ci si ferma. Ci si alza e si applaude. Baciati dal talento, ispirati dal genio del gioco. Novelli portatori della lampada di Aladino. Il parquet come casa, ufficio artistico. In una sorta di passaggio di testimone, un Grant Hill, in versione assist-man, commosso appende le scarpette e dall'altra parte di quell'immaginario pallone il ricevitore è Jason Kidd, uno che ha vissuto vedendo traiettorie ad altri oscure. Riceve e si adegua. Dice basta anche lui. Pensando alla fatica, all'età e forse alle panchine, troppe, dell'ultima stagione a New York. É fallito l'assalto all'anello, con i Knicks scioltisi al sole dell'Eastern Conference, scioltisi all'inferno dei playoff. Come lui Grant. L'approdo ai Clippers alla ricerca dell'anello, agognato e impietosamente sfuggito. Un anello per coronare una carriera, che la sorte ha reso ardua.

 

Strana carriera quella di due artisti eletti rookie dell'anno, a parimerito, nel lontano 1995. Strane coincidenze. Cresciuti insieme, insieme lasciano. Si chiude il cerchio. La favola di Grant iniziata a Duke e continuata con la terza scelta del Draft dei Detroit Pistons. L'oro con gli Stati Uniti ad Atlanta. I successi prima, gli infortuni poi. L'Hill di Orlando è l'Hill più dominante mai visto. Il nuovo Jordan, epiteto e accostamento di rara pressione. Poche volte si era visto uno così. Per definirlo, prendo in prestito quello che era il soprannome di un altro grande del passato, Dominique Wilkins, the human highlight film. L'atletismo, la classe, la sapienza del gioco. Era tutto in un corpo volante. Era semplicemente il basket ai massimi livelli. Ma il destino avevo scelto altro. Il destino non era con Grant Hill. Arrivano i problemi alla caviglia, l'ernia. Saltano partite e stagioni. Sembra finita e in realtà lo è. Tornerà, ma sarà un altro Grant Hill. Non meno forte, diverso. Senza quell'esplosività che lo ha reso grande, ma con cuore, esperienza, soprattutto intelligenza. Uno scienziato del gioco, l'uomo spogliatoio che conta più del campione. Per quello mancherà, perché più del Grant Hill giocatore, mancherà il Grant Hill uomo, sul parquet. In campo, fuori, durante la partita, in allenamento. Mancherà l'esempio Grant Hill. David Stern, capo supremo della Lega più bella del mondo, ha commentato così il commiato “Grant ha impersonato gli ideali della passione e della perseveranza, riuscendo a superare gli infortuni e le difficoltà.” Un esempio.

 

 

Per Jason Kidd parlerebbero i numeri. Le 1391 partite, il numero di assist, scritto nei libri che raccontano la storia del gioco e ancora di più nella memoria degli appassionati. Eppure i numeri, soprattutto per Jason Kidd non dicono nulla. Da Phoenix a New Jersey, portata in finale due volte dal suo talento e poco altro, fino a New York, attraverso Dallas. Sì perchè ai Mavs cambia la storia di Jason che lì e poi con il Team Usa scrive i capitoli più belli. “Le due cose di cui sono più orgoglioso nella mia carriera? L'anello Nba e l'aver condiviso il titolo di rookie con Grant Hill.” Silenzio. Grandi in campo, grandi nelle parole. Si potrebbe parlare delle finali di Kidd (e Nowitzki), di tanti incontri decisi dalle sue meraviglie, gioie per gli occhi. Ma cosa aggiungerebbe a lui? Nulla. “Il valore di Jason per i Knicks e per la National Basketball Association non può essere misurato dalle statistiche.” Glen Grunwald.

 

 

Ci sono momenti in cui agli appassionati scende una lacrima. Quella lacrima è misto di tristezza e gioia. Non sapresti definirla, perché senti di aver perso qualcosa, ma sai che non potrà mai perdere quella cosa. Perché quella cosa, quell'immagine, quel momento, quella storia vivrà per sempre nei tuoi ricordi. Perché le leggende non finiscono. Allora piace immaginarsi Grant e Jason al campetto, nell'America più dura, dove crescono i fenomeni del domani, dove si gioca per davvero, uno contro uno, senza squadra, lì dove si forgiano i cuori dei giocatori, sfidarsi, sul cemento, davanti a canestri rovinati, nell'ultima infinita battaglia con la palla a spicchi. Grant, Jason e il basket. Per sempre.