The GOAT ne fa 52.

No, non stiamo parlando di punti in una partita. Quelli li ha già fatti un'infinità di volte in carriera e siamo sicuri li farebbe anche oggi che non gioca più al Gioco da ormai diversi anni. Michael Jeffrey Jordan, per i più "the greatest of all time", spegne oggi 52 candeline e come ogni anno per i suoi seguaci e sostenitori il 17 febbraio è un giorno di festa fatto di emozioni e ricordi.

Come per tutti i grandi campioni dello sport, da Diego Armando Maradona a Roger Federer, almeno una volta nella vita ognuno di noi si è immaginato nei loro panni e la cosa ovviamente vale anche per MJ. Ogni volta che abbiamo giocato con gli amici al campetto sotto casa, o più semplicemente ogni volta che abbiamo avuto a disposizione un pezzo di carta arrotolata ed un cestino, sfido a trovare solo una persona tra di voi che non abbia mai tentato il tiro urlando o pensando nella sua testa le seguenti parole: "MICHAEL JOOOOOORDAN!!!".

Ma oggi che è il suo compleanno vogliamo andare oltre la semplice emulazione delle sue giocate, per capire cosa realmente significhi essere Michael Jordan.

LA NASCITA DI UNA STELLA Senza ombra di dubbio la carriera di Michael Jordan è una tra le più affascinanti ed emozionanti della storia dello sport. A partire dagli anni del liceo, la Laney High School, quando un giovanissimo Michael venne incredibilmente escluso dalla squadra di basket, la Varsity, perchè troppo basso e "scarso" e quindi non idoneo. Follia. L'avventura cestistica di MJ a questo punto potrebbe già essere al capolinea, dato che anche il baseball lo stuzzicava e non poco, ma grazie alla sua forza di volontà (che lo aiuterà in molti momenti) il ragazzo venuto da Brooklyn inizia a dimostare a tutti il suo valore e le sue potenzialità e l'Università della North Carolina riesce ad accaparrarselo. Lì allena niente meno che Dean Smith, insieme al quale già al primo anno Michael conquista con la sua squadra il titolo della NCAA, con tanto di canestro decisivo nella finale.

CHICAGO NEL DESTINO Il destino sarà uno dei tanti fattori del successo di "His Airness", a partire dal suo approdo nella NBA nel 1984. Se alla prima chiamata Houston sceglie Hakeem Olajuwon, alla seconda tutti si aspettano che Portland vada per Jordan, ma i Trail Blazer chiamano tale Sam Bowie: buon potenziale, tanti infortoni, discreta carriera, lontano anni luce da MJ. Chicago, che è la terza squadra a scegliere, non si fa sfuggire l'occasione: Jordan è un giocatore dei Bulls e per la franchigia dell'Illinois nulla sarà più come prima. I primi anni di NBA confermano il suo grande talento: è "Rookie of the Year" e le sue statistiche sono semplicemente mostruose. Ma qualcosa nella squadra non funzione e i titoli tardano ad arrivare: Michael arriva sempre ad un passo dalla vittoria finale ma al momento decisivo i sogni dei Bulls vengono sempre bruscamente interrotti.

GLI ANNI DELLA CONSACRAZIONE A livello personale per Jordan sono gli anni della consacrazione. Le sfide e la rivalità con Larry Bird e Magic Johnson incrementano ancora di più la sua popolarità. E' intanto diventato testimonial della Nike e la sua figura cambierà per sempre il mondo del marketing pubblicitario: MJ fa tendenza e tutti vogliono vestirsi come lui ed indossare le sue scarpe. Nel 1987 e 1988 vince per due volte consecutive lo Slam Dunk Contest, grazie a due schiacciate che andranno agli annali e che verranno raffigurate nei poster appesi in migliaia di case sparse nel mondo. Michael Jordan è diventato la stella più luminosa del basket americano, ma i titoli con i suoi Bulls continuano a non arrivare. Servirebbe una svolta, che non tarderà ad arrivare.

L'ARRIVO DI PHIL E IL PRIMO THREE PEAT Con l'avvento sulla panchina di Chicago di Phil Jackson arrivano finalmente anche i primi anelli. Phil riesce ad entrare subito il sintonia con Michael, a fargli cambiare idea su alcune questioni riguardo il modo di giocare e a migliorare il rapporto tra Jordan ed il resto della squadra. Il metodo Jackson funziona e dal 1991 al 1993 non c'è storia: prima i Lakers di Johnson, poi i Trail Blazers di Drexler ed infine i Suns di Barkley sono costretti a capitolare sotto le magie del numero 23 dei Bulls. Nel 1992 Michael è anche la punta di diamante di quella che tutti definiscono come la nazionale più forte di tutti i tempi, il Dream Team, che alle Olimpiadi di Barcellona conquisterà la medaglia d'oro.

LA MORTE DEL PADRE ED IL PRIMO RITIRO La gioia di Michael per la conquista del terzo anello è destinata purtroppo a non durare molto, perchè nell'estate del 1993 l'assissione del padre sconvolge profondamente il suo animo tanto che poi mesi dopo, in una conferenza seguita da tutto il mondo, Jordan annuncia il suo ritiro per potersi dedicare al baseball: perchè quello era lo sport preferito di papà James e perchè il basket sembrava averlo svuotato di qualsiasi forza e stimolo. Michael Jordan diventà così un giocatore dei Chicago White Sox, squadra militante nella Minor League.

IL RITORNO AL BASKET ED IL SECONDO THREE PEAT I risultati sono modesti e Jordan inizia presto a fare un pensiero su un possibile ritorno nel mondo del basket. Il 18 Marzo 1995, 17 mesi dopo il ritiro, l'annuncio: Michael Jordan torna. E lo farà sempre con la casacca dei Chicago Bulls, ma non con il 23: Michael voleva che l'ultima partita con quel numero fosse stata quella vista da suo padre. Si cambia e si passa al 45. Il ritorno non coincide però con la vittoria: i Bulls vengono eliminati ai play-off dagli Orlando Magic di un giovassimo Shaquille O'Neal e MJ commette alcuni errori decisivi, tanto che la stampa si interroga se il n.45 dei Bulls sarà mai forte come il 23 che fu. Michael recepisce il messaggio, torna alla 23 e passa tutta l'estate ad allenarsi: l'effetto è devastante. La stagione 1995-1996 è la migliore mai giocata da una squadra NBA, sono i numeri a dirlo. Per gli esperti del settore quei Chicago Bulls sono la squadra più forte di tutti i tempi e per i Seattle Supersonics non ci sono speranze: il 4° titolo è realtà. Le ultime due stagioni saranno segnate dalla rivalità con gli Utah Jazz di Karl Malone e John Stockton, con i quali Michael si scontrerà in entrambe le finali NBA. Nelle finali 1997 gara-5 passerà alla storia come "the flu game": MJ la notte prima è vittima di una intossicazione alimentare e la sua presenza è in forte dubbio fino all'ultimo minuto. Alla fine scenderà in campo giocando una delle partite più belle della sua carriera e nel match successiva i Bulls si laureeranno campioni per la 5° volta.

LA FINALE 1998 E THE "SHOOT" Sarà però gara-6 delle finali 1998 a consegnare definitivamente alla storia la figura di Michael Jordan. I Bulls sono al loro "ultimo ballo" e dopo quelle finali la squadra si scioglierà. Jordan ha già annunciato il suo ritiro, ma non vuole andarsene a mani vuote. Le finali contro i Jazz si trascinano fino a gara-6 dove, nella bolgia del "Delta Center" di Salte Lake City, Michael dipinge la sua personale "Cappella Sistina": il suo tiro a 5'' dalla fine, con il quale i Chicago Bulls si porteranno in vantaggio e conquisteranno il 6° titolo, diventerà una delle istantanee più celebri della carriera del 23.

Michael nel 2001 tornerà per la terza volta a giocare, questa volta con la casacca dei Whasington Wizars, e lo farà "for the love of the Game".

E proprio il suo amore per il gioco, insieme alla sua carriera e alla sua vita, ci fa capire cosa significhi realmente essere Michael Jordan. In tutto ciò che ha fatto dentro e fuori dal campo, con le sue pubblicità divenute un cult e con il film "Space Jam" con il quale ha fatto appassionare milioni di piccoli bambini, MJ ci ha sempre messo il massimo di se stesso ed ha sempre dato il 100%. Ed è per questo che oggi è un punto di riferimento per tanti giovani ragazzi che da Jordan hanno imparato la lezione più importante: non avere mai paura, perchè "i limiti, come le paure, a volte sono solo un'illusione".

Ecco perchè essere Michael Jordan significa essere il migliore.

Tanti auguri #23.