Quattro sconfitte nelle ultime quattro partite, sette nelle prime undici, peggiore striscia dal gennaio del 2013. E il 111-95 rifilato a domicilio dai Boston Celtics come cartina di tornasole di criticità che una contender non può permettersi di trascinarsi a lungo. Specialmente nella Western Conference.

Houston, intesa come Rockets, ha un problema evidente. E si chiama difesa. Ovvero la pietra angolare su cui poggiare le basi di quel progetto chiamato Finals 2016. Chi intende arrivare alla terra promessa, infatti, non può certo permettersi di concedere costantemente 108.5 punti a partita agli avversari. Già, 108.5: questo è il dato cui fare primariamente riferimento, una costante tanto nelle vittorie quanto nelle sconfitte. Con la media che si alza a 115 quando manca Dwight Howard (miglior rimbalzista della squadra a 12.8 ad allacciata di scarpe), assente in 3 delle ultime 4 gare. Non è un caso, ovviamente. Perché i Rockets, più di altri, soffrono le squadre che amano giocare nel pitturato. Basta guardare le statistiche: dietro l’arco c’è un accettabile 36.1% (con 8.8 triple mandate a bersaglio ogni 24.5 tentativi) che, però, si tramuta in un inequivocabile 64% (per una percentuale complessiva dal campo del 47) quando si decide di attaccare l’area dei tre secondi. E se viene a mancare anche DH12 i guai si moltiplicano, anche a causa dei 12.4 rimbalzi offensivi concessi agli avversari, che hanno così sovente una seconda opportunità per andare a bersaglio.

Altra grave carenza è l’approccio iniziale. I Rockets, nei primi 24 minuti, tendono a concedere quasi 60 punti di media (28.3 nel primo quarto, 27.4 nel secondo), con le percentuali dal campo degli opponents che non scendono mai al di sotto del 45%. Un crescendo rossiniano alla rovescia fino ai 27.7 dell’ultimo periodo.

Quando, poi, ci si mettono anche le palle perse tutto diventa tremendamente più complicato: Houston è la sesta squadra Nba per turnovers (16 a sera), causati per lo più da ribaltamenti sbagliati per tempistica e scelte. Nel secondo quarto dell’ultima partita la truppa di McHale era avanti di 13 punti, prima di 4 palle perse consecutive costate la parità a quota 55. Con il resto della gara che ha seguito il trend già evidenziato poco sopra: terzo quarto da 32-13 e Celtics entrati negli ultimi 12 minuti sopra di 29.

(Le statistiche, quarto per quarto, della difesa dei Rockets)

Le modalità sono sempre le stesse. Alla difesa basta zonare con i tempi giusti e aspettare che arrivi l’errore sul tentativo di spostare l’azione sul lato debole: l’intervento provoca quasi sempre un contropiede tre contro zero o tre contro uno, con quell’uno che, sovente, è il James Harden solitamente ‘costeggiante’ difensivamente parlando. Con i compagni che, comunque, non è che brillino per quanto riguarda i tentativi di rientro dopo un errore.

A proposito del ‘Barba’. Detto del terrificante -27 di plus/minus contro i figli del Massachussets, non si può non evidenziare come gran parte dei problemi nella metà campo difensiva nascano dalla sua shot chart. L’ex Okc è, infatti, il primo giocatore della lega per numero di isolamenti (siamo già oltre quota 80): una scelta che paga dividendi soltanto nel 38.2 % dei casi, Non certo la soluzione migliore possibile per una squadra che soffre l’equivalente calcistico di ‘difesa e contropiede’. 

(Questo il plus/minus di Harden nelle sette sconfitte stagionali)

Quali sono le contromisure da adottare? Difficile dirlo. Probabilmente perché anche lo stesso McHale non sa più cosa inventarsi. L’ultima, in ordine di tempo, dovrebbe essere quella di panchinare, almeno inizialmente Ty Lawson per lasciare spazio nello starting five al Beverley o al McDaniels di turno: due che compensano la non sempre ottimale verve offensiva, con l’attenzione e la concentrazione all’interno dei propri 14 metri.

Attenzione e concentrazione. L’equivalente dell’ ‘aspettare e sperare’ di Alexandre Dumas. Solo che McHale tutto sembra tranne che il Conte di Montecristo. Soprattutto perché non ha tutto il tempo di Edmond Dantés per portare a termine il suo progetto.  E, al momento, fare dei Rockets una squadra con la cultura della D-Fense appare più difficile che vendicarsi di chi ti ha sbattuto al Castello d’If.