La NBA è una lega curiosa: si può passare da fuoriclasse, prima scelta assoluta a totale delusione o viceversa da ultima chiamata del draft ad essere un All Star nel giro di poche stagioni. Ci sono giocatori che sembrano fatti apposta per la lega, con abilità ben definite che permettono loro di ritagliarsi uno spazio, seppur con sudore e applicazione, all’interno delle rotazioni della propria squadra. Infine poi ci sono le “scommesse”, ragazzi che lasciano intravedere qualche potenzialità ma non abbastanza da poter dire di avere un proprio spazio fisso nelle gerarchie. Per questi giocatori non esiste il poter vivere di rendita: tutto quello che si riceve deve essere guadagnato con il lavoro, sapendo aspettare l’occasione di mettersi in mostra mentre i compagni di squadra calcano il parquet  e una volta che questa arriva bisogna saperla sfruttare. Il fallimento in uno di questi tre momenti comporta in automatico la chiusura delle porte della lega più affascinante e importante del mondo.  Non che per i restanti giocatori le cose siano diverse sia chiaro, ma per le “scommesse” le probabilità di inserirsi nell’elite del basket mondiale sono chiaramente di meno.

Un caso emblematico di “one who made it” è Draymond Green, lo Spartan di Michigan State che ha visto chiudersi le porte di una carriera normale per vedersi spalancare quelle di una da futuro hall of famer. Certo giocare con Curry aiuta ma i successi degli Warriors che tanto impressionano si devono per buona parte anche al numero 23 che sotto la guida di Steve Kerr  ha ulteriormente rimodernato il ruolo di “stretch 4” attribuendogli anche responsabilità da playmaker aggiunto.

Non arriveranno a questi livelli ma in questa stagione sono cresciuti i rendimenti di alcuni giocatori che potrebbero rivelarsi interessanti non solo nel presente delle loro franchigie ma soprattutto nel prossimo futuro.

Primo della lista è Kyle Anderson dei San Antonio Spurs. L’ex UCLA  aveva fatto vedere con la maglia dei Bruin doti da playmaker vecchio stile, trattamento di palla invidiabile e palleggio arresto e tiro solidi in un corpo esile di 2 metri con braccia lunghissime ma con esplosività ridotta. Questo non gli ha permesso di avere minuti consistenti durante il suo primo anno nella lega (se non nel garbage time), tanto da avere una parentesi in D-League con gli Austin Spurs. Si sa che però San Antonio è un posto unico al mondo per migliorarsi grazie alla presenza di un certo Gregg Popovich senza contare che si può fare affidamento su Parker, Ginobili e Duncan come compagni di squadra. Fatto sta che in questa stagione, la seconda per lui nella NBA, il numero 1 in maglia nero argento abbia innalzato il proprio livello di gioco e le cifre lo dimostrano: 14 minuti in campo con 4.3 punti e 1.3 assist. Numeri che direbbero poco ma questa è San Antonio e i numeri valgono poco in generale. Il cambiamento di Anderson parte inaspettatamente dalla difesa:  è il primo in tutta la NBA per punti concessi in situazioni di spot up con solo 0.55 per possesso. Infine la sua importanza sta proprio nel voler allargare il gioco e favorire la filosofia di small ball, ovvero di gioco con 4 piccoli e un solo lungo, andando a sostituire spesso il super veterano Duncan e giocando da ala forte.

Il secondo è Rodney Hood degli Utah Jazz. Al suo secondo anno nella NBA, l’ex Duke sembra aver trovato una sua dimensione sotto la guida di Quin Snyder entrando dalla panchina e dando subito il suo contributo nella metà campo offensiva. Durante la gara del Venerdi dell’All Star Weekend abbiamo avuto un saggio delle doti dell’ex Blue Devil: braccia lunghe, tiro dalla distanza affidabile (38% ), grazie alla sua capacità di essere pericoloso in ogni situazione, specialmente in quelle di pick and roll contribuendo a dare una spinta decisiva all’attacco degli Jazz in brevi spezzoni di gara. La sua efficienza offensiva è seconda solo a quella di Gordon Hayward ed è capace di salire ulteriormente quando in campo forma il tandem proprio con la stella di Utah e l’impatto sulla squadra ne risente con 106 punti per 100 possessi.

Ultimo della lista è Ed Davis dei Portland Trailblazers. Ventiseienne, sembra già “anziano” per questa particolare lista ma il fatto che per anni Davis non abbia avuto un ruolo fisso, lo inserisce a ragione tra i giocatori emergenti di questa stagione. Il segreto della stagione sbalorditiva di Portland è da ricercarsi ovviamente nelle figure di Damian Lillard in primis e CJ McCollum ma è da dire che una piccola parte va attribuita anche al numero 17. Ala forte uscente dalla panchina, il prodotto di North Carolina campione NCAA nel 2009 aumenta considerevolmente l’efficienza difensiva dei Blazers. Certo la franchigia dell’Oregon è 20esima per efficienza difensiva ma bisogna dire che con Davis in campo gli avversari tirano con il 10% in meno da 2 e mettono a segno 3 triple in meno su 100 possessi rispetto a quando è seduto in panchina. Inoltre rende più facile il lavoro difensivo dei compagni: basta vedere l’efficienza del compagno di reparto Meyers Leonard quando Davis è presente o meno. Offensivamente parlando l’ex Tar Heel è l’anello debole del gruppo, senza movimenti in post solidi oltre che tiri dalla media per non parlare di quelli dalla lunga distanza. Il suo contributo alla causa nella metà campo d’attacco proviene tutto da situazioni di pick and roll e rimbalzi offensivi che gli restituiscono più del 66% nel tiro da 2.

La stagione è ancora lunga e come si può vedere da esempi come Patty Mills o Cory Joseph, le scommesse possono pagare anche durante le serie di Playoffs o di Finals quindi non resta che attendere e godersi lo spettacolo.