Con il successo ottenuto la scorsa notte sul campo degli Utah Jazz, Tim Duncan è divenuto il terzo giocatore della storia della National Basketball Association ad aver vinto (almeno) mille partite di regular season in carriera. Davanti a lui solo altre due leggende del gioco come Kareem Abdul-Jabbar e Robert Parish, icone dei Los Angeles Lakers e dei Boston Celtics.

Il record, che si aggiunge a una serie ormai infinita di riconoscimenti individuali, è stato accolto nella migliore tradizione Spurs, di cui Duncan è senza dubbio il più fiero e puro rappresentante. Nessuna celebrazione, nessuna intervista con i reporter per far notare l'impresa, piuttosto un caloroso abbraccio al compagno di squadra Kawhi Leonard, decisivo a Salt Lake City con un jumper a pochi secondi dallo scadere. Mille di queste vittorie, verrebbe da dire a uno come The Big Fundamental, il fuoriclasse minimalista su cui in Texas hanno costruito per l'appunto le fondamenta di un'intera franchigia (ovviamente l'appellativo gli è dovuto per le inarrivabili doti nei fondamentali del gioco, al punto che il caraibico non ha mai nascosto di sentirsi anche un playmaker). Duncan, l'uomo che mise una tripla allo scadere di una fantastica gara 1 di primo turno dei playoff contro i Phoenix Suns (era il 2008) come fosse un Robert Horry qualsiasi, lo stesso personaggio che la scorsa estate ha telefonato direttamente alla redazione del San Antonio Express per rendere noto il suo rinnovo contrattuale, ha modificato il basket Nba più di quanto si sia disposti a credere. Dominante come pochi altri lunghi in gioventù, quando con l'ammiraglio David Robinson costituiva una coppia di giganti nelle prime edizioni degli Spurs, poi perfetto nel ruolo di uno dei componenti dei mitici Big Three (Tony Parker e Manu Ginobili gli altri del magnifico trio), non ha ammainato la sua bandiera neroargento nemmeno nell'ultima fase della sua carriera, per certi versi la più affascinante e sorprendente. 

Il Duncan degli ultimi anni si è evoluto da straordinario realizzatore offensivo a facilitatore dei vari sistemi di gioco del suo maestro Gregg Popovich. Dal "quattro basso", chiamata dalla panchina che indicava come si dovesse andare da Timmy sotto canestro, specialmente nei momenti chiave delle partite, il caraibico è stato capace di ritagliarsi uno spazio anche quando San Antonio ha dovuto puntare prima su Tony Parker e poi su Kawhi Leonard. Il tutto senza modificare di una virgola il suo approccio alla pallacanestro, gioco praticato da vero artista nella metà campo difensiva, dove i suoi aiuti sono a loro volta divenuti leggendari per tempi e capacità di stoppare quasi senza saltare. Duncan ha attraversato vent'anni di basket Nba a livelli di eccellenza, contribuendo alla nascita di una dinastia che ancor oggi non ha alcuna intenzione di abdicare. L'arrivo l'estate scorsa di un altro lungo dai numeri impressionati come LaMarcus Aldridge non ne ha cambiato il ruolo di leader, unico e incontrastato, dello spogliatoio dell'AT&T Center. Sacrificato per motivi tattici nella sfida dell'anno contro i Golden State Warriors ("si è dimostrato una volta di più la persona eccezionale che è", ha detto a proposito Ettore Messina), Tim ha accettato la scelta del suo staff tecnico in modo composto, dando il suo contributo anche in quegli otto minuti in cui è stato sul parquet, che ai romantici del gioco sono sembrati una mezza profanazione di un momunento. Perchè quando si parla di Duncan si parla di questo, di una leggenda della pallacanestro che non smette mai di stupire, ma a modo suo, da vero signore dello sport, non solo del basket.

"In gara 6 di finale di Conference contro gli Oklahoma City Thunder - ha raccontato Manu Ginobili a Flavio Tranquillo ripercorrendo la cavalcata verso l'ultimo titolo, quello del 2014 - ero dilaniato dai crampi. Nel secondo tempo Tony (Parker) era uscito per infortunio, eravamo punto a punto, in difficoltà contro la loro forza atletica. Poi...Timmy è Timmy, ha preso palla in post contro Ibaka e gli ha segnato non so come, passandogli sotto le braccia con uno dei suoi infiniti movimenti. Abbiamo vinto quella serie e poi ci siamo andati a prendere il titolo contro Miami". Questo solo uno dei tanti ricordi di un fuoriclasse inarrivabile, che ormai a quarant'anni continua a spiegare pallacanestro a giovani e meno giovani, scherzando in ogni prepartita con Sean Elliott, ex compagno di squadra (protagonista del Memorial Day Miracle contro Portland nel 1999, il famoso tiro da tre con i talloni alzati sulla linea laterale) e ora opinionista per la tv di San Antonio. Rispetto e umanità per un numero e una maglia che saranno omaggiate al momento del suo ritiro dalla sua franchigia, anche se appassionati e tifosi si augurano che queste mille vittorie siano solo un capitolo - non l'ultimo - della sua storia al centro della scena Nba. Mille partite vinte in regular season, e pensare che altri mostri sacri del gioco come Larry Bird, Magic Johnson e Bill Russell, non sono arrivati neanche a disputarle. Mille e (almeno) un altro anno, Tim.