Come raccontare una stagione Nba che, in nove mesi o poco più, ha detto tutto e il suo contrario? Scegliendo le dieci istantanee più significative, senza la pretesa dell'oggettività assoluta. Ognuno ha le sue pics preferite. Anche chi, come noi, ha provato a raccontarvi lo spettacolo più bello del mondo nel modo migliore possibile.

Fear the Deer

Ad inizio stagione sembra che i Golden State Warriors non possano perdere. Ci sono partite giocate bene, altre benissimo, altre così così. Eppure, anche nelle giornate storte, i figli della Baia trovano sempre le risorse per sfangarla, in un modo o nell'altro. Eppure quando il 13 dicembre si presentano al Bradley Center, la sensazione è quella che il 24-0 con cui hanno iniziato la stagione (record, ovviamente) possa vacillare. Non foss'altro perché la notte precedente i Celtics avevano fatto sudare le proverbiali sette camicie a Curry & co. Detto, fatto: i Bucks sono in palla come mai prima (e mai dopo, ndr) e prima resistono ai tentativi di spallata di Golden State, poi piazzano nel finale il parzialone di 18-28 che gli assicura la W. Dimostrando che anche i guerrieri possono sanguinare.

A Sky full of Stars

Nel fine settimana di San Valentino, l'Nba celebra il suo amore con lo sport's entertainment con l'All Star Game in quel di Toronto. Al sabato Klay Thompson si prende la scena che doveva essere di Steph Curry vincendo la gara del tiro da tre, Zach LaVine si riconferma campione nello Slam Dunk Contest dopo uno spettacoloso duello all'ultima schiacciata con Aaron Gordon e Karl-Anthony Towns si aggiudica lo Skills Challenge stupendo Isaiah Thomas e il mondo intero. La domenica, però, le luci e le attenzioni sono tutte per Kobe Bryant, alla sua ultima partita delle stelle prima del ritiro. Ha preso più voti di tutti (anche di Steph) e, alla fine, si prende anche più applausi di tutti, uscendo dal campo accompagnato dall'ovazione di tutto l'Air Canada Center. Facendo risultare il resto della partita quasi un inutile dettaglio.

It's always Lillad time!

Immaginate di essere uno dei giocatori più forti della Lega. Alla guida di una squadra che ad inizio stagione avrebbe dovuto perderle tutte e che, invece, arriverà addirittura al secondo turno di playoff nel 'Wild Wild West'. Immaginate, quindi, che, nonostante tutto, siate sempre l'underdog per eccellenza, quello che nessuno considera mai, quello che non prende abbastanza voti per andare all'All Star Game o essere considerato abbastanza valido per poter far parte nella selezione dei 30 che si giocheranno un posto per le Olimpiadi di Rio. bene, se avete immaginato tutto questo, siete Damian Lillard. Il quale, quando il 19 febbraio al Moda Center arrivano i Golden State Warriors, ha una voglia matta di spaccare il mondo: 51 punti, 7 assist e 6 recuperi in faccia a Curry e alla Nba. Che non ha ancora imparato a rispettarlo abbastanza.

Mr. Basketball 

Non sempre ci si rende conto di stare assistendo alla storia, di far parte di qualcosa di cui si parlerà negli anni a venire. Ma quando accade, apprezzi in tutta la sua interezza la fortuna che hai avuto nell'essere venuto al mondo. Il 27 febbraio, a cinque secondi dalla fine del primo overtime della gara contro i Thunder a Oklahoma City, Steph Curry ha messo a referto 43 punti con 11 triple (ri)scrivendo per l'ennesima volta tutta la serie di record e primati che appartengono a lui e ai Warriors. Ma la sua Cappella Sistina non è ancora completa: dopo l'ennesima forzatura di Westbrook, si impossessa della palla e spara dai 10 metri per la vittoria facendo urlare tutto il mondo. In quel momento il 30 non è solo l'MVP in carica (si riconfermerà a fine stagione) e/o il leader di Golden State e/o il giocatore più forte del mondo: è il basket.

Lights Out

La stagione di Kobe Bryant è stata un autentico calvario. Le difficoltà iniziali, poi l'annuncio del ritiro con la struggente lettera pubblicata su The Player's Tribune. Quindi le ovazioni e le standing ovation raccolte in giro per i parquet di tutta America ogni volta che i Lakers (alle prese con la peggiore annata della propria storia) si trovano in trasferta. In mezzo qualche buona prestazione alternata ad altre rivedibili, lottando con gli infortuni e gli inevitabili acciacchi dell'età. Un countdown che si trascina stancamente fino al 13 aprile, quando allo Staples Center è in programma l'ultima partita. Della stagione, dei Lakers, della carriera del 'Black Mamba'. Nessun grande del passato, all'ultimo atto, era riuscito anche solo ad avvicinare quota 30. Ma nessuno è Kobe Bryant. Che, in piena continuità di un mondo che solo lui poteva vivere, esagera: 60 punti, 22/50 dal campo e vittoria sui malcapitati Utah Jazz. Con l'amico/nemico Sahquille O'Neal che, alla fine, commenterà: "Per scherzo prima della partita l'avevo sfidato a metterne 60. E quel figlio di buona donna l'ha fatto per davvero".

Making History  

Il tutto mentre 600 km più a sud i Golden State Warriors rendevano possibile l'impossibile: 73 vittorie in regular season, con il 72-10 dei mitici Chicago Bulls 1995/1996 (protagonisti indiretti di un duello generazionale che si è protratto per tutta la stagione) mandato in archivio dopo appena vent'anni. Vale lo stesso discorso fatto per Curry: abbiamo visto la storia mentre si compiva dinanzi ai nostri occhi e dovremmo solo ringraziare per esserne stati tutti testimoni. Invece si è scelta la strada del parallelismo ad ogni costo, del "in passato non era così facile", del continuo sminuire i meriti di una squadra che non avrà coronato tutto questo con la necessaria gioielleria ma che, piaccia o non piaccia, ha anticipato ciò che potrebbe essere il basket del futuro. Che poi 'The Game' sappia essere crudele al grido di "73-9 doesn't meaning a thing without a ring" è ciò che rende questo sport così bello e così crudele allo stesso tempo.

Ultimo tango a San Antonio?

Sottotraccia, sottovoce, in totale allineamento con la Spurs culture. A San Antonio si stavano gettando le solite basi per l'altrettanto solito colpo gobbo ai danni delle favoritissime Golden State e Cleveland, con tanto di 67-15 in RS a certificare la bontà delle intenzioni. Peccato che, dopo un primo turno di PO passato agevolemente contro dei Grzzlies più rabberciati che mai, Pop e compagnia si facciano tirar fuori da OKC  in sei partite. E quello che doveva essere il trionfale passo d'addio di Duncan e Ginobili si trasforma in una delle delusioni più cocenti della storia recente della franchigia. Nei prossimi giorni si saprà se la connection argentino-caraibica vorrà concedersi un ultimo ballo e provare a mettersi al dito ancora un anello. Indiscrezioni? Ma nemmeno a parlarne.

Eterno incompiuto (?)

Fino al 31 maggio scorso erano solo nove le squadre che sono state in grado di ribaltare un 3-1 in una serie di playoff. I Golden State Warriors diventeranno la decima (e i Cavs l'undicesima, nonché prima nel compiere un'impresa simile alle Finals), eliminando i Thunder a gara 7 alla Oracle Arena, nonostante un Kevin Durant da 31 di media nelle ultime cinque partite. Non certo il modo migliore per convincere KD35 a resistere alle sirene dell'imminente free agency. Soprattutto se, ancora una volta, la stampa di settore ha trovato in lui il primo responsabile dell'incompiutezza di OKC in questi anni. Seguire l'esempio di LeBron, che si vide costretto a cambiare aria per poter vincere, è molto più che una tentazione di mezza estate.

LeBlock  

Ogni Finale Nba ha bisogno di un'istantanea che catturi il momento in cui il labile confine tra vittoria e sconfitta viene a delinearsi in maniera netta. Tanto più se si tratta di una finale che si decide a gara 7. Con l'ennesima chasedown di una serie principesca, LeBron non ha stoppato solo Iguodala e le speranze di back to back dei Warriors: ha stoppato il destino di eterni perdenti della gente di Cleveland e dell'Ohio, le voci di chi lo voleva sempre incapace di fare quel qualcosa in più che servisse per vincere anche lì, i paragoni giusti e ingiusti con un passato che non gli appartiene. Ha pareggiato i conti con i demoni che lo divoravano dentro, ha vinto quando doveva vincere, ha rivinto dove aveva promesso che l'avrebbe fatto. E adesso, finalmente, è libero di essere ciò che è: uno dei migliori giocatori di tutti i tempi, senza se e senza ma. 

The Shot 2.0

Tanto più che al resto ha pensato Kyrie Irving, molto più di un fedele scudiero alla corte del 'Re'. Perché uno scudiero, interpellato sul tiro più importante della sua vita, non rispnde: "All I was thinking about was Mamba Mentality". Per il resto siete, sono, siamo, tutti testimoni.