Una delle storie dietro allo storico trionfo dello scorso anno dei Cleveland Cavaliers di LeBron James è senz'altro quella di David Blatt: il cinquantasettenne statunitense è stato il primo – e finora unico – allenatore a balzare da una squadra di Eurolega direttamente al ruolo di head coach in NBA, e lo ha fatto portando i Cavs orfani di Kevin Love e Kyrie Irving a due partite dal titolo 2015. Nel gennaio successivo, però, a causa soprattutto delle divergenze con LeBron James, l'ex-Maccabi Tel Aviv veniva accompagnato alla porta per lasciare spazio a Tyronn Lue, poi campione con la straordinaria rimonta dal 3-1 nelle Finals contro i Golden State Warriors.
Amos Barshad, giornalista del magazine di Bleacher Report, si è recato per undiversi giorni in Turchia, dove ora Blatt dirige il Darussafaka (con un biennale da oltre quattro milioni di dollari), per realizzare una lunghissima intervista proprio con il coach più discusso della scorsa stagione NBA.

Blatt ha iniziato parlando delle Finals 2016, ed ammettendo piuttosto candidamente di averle “seguite ma non guardate”. Il motivo? Molto semplice: “avevo sonno”. Maledetto fuso orario, insomma. Subito dopo, la discussione si è spostata sulla possibilità di una permanenza NBA, con diverse squadre (New York, Houston e Sacramento su tutte) che hanno avuto contatti col coach, libero fino alla scorsa estate. “Ho sentito diverse squadre per il ruolo da head-coach dopo Cleveland, ma dal primo giorno avevo deciso che se non avessi trovato un impiego, sarei tornato in Europa”.
Un passo indietro, però, e subito si torna ai primi giorni da allenatore oltreoceano: “Il gioco in NBA è molto diverso. Ma soprattutto lo stile di vita è ancor più diverso. Serve tempo per abituarsi, e penso che all'inizio io non mi sia neanche accorto di quanto fosse differente. Pensavo solo alla pallacanestro. Serve tempo per sentirsi a proprio agio e per diventare credibile. Ma per me è ok, è stata un'esperienza da cui ho imparato tanto. Non è finita come volevo, ma nella mia vita sono caduto abbastanza da sapere come rialzarmi. Ora che inizia ad essere un po' più distante, cerco di guardare alla mia esperienza NBA con positività. È una scelta precisa che ho fatto”.

Proprio a riguardo della situazione a Cleveland, coi media pronti ad ingigantire ed analizzare ogni singolo episodio dentro e fuori dal campo, Blatt ha mantenuto un certo distacco: “Non voglio entrare molto nel merito. I media avevano del materiale per fare notizia, e se non lo avevano lo creavano. Hanno le loro motivazioni e le loro responsabilità, ma è parte dell'enorme macchina che rende la NBA così interessante e così attraente per gli appassionati, per i proprietari, per gli sponsor e per i media. È ovvio che se vuoi riceverne i frutti, devi anche capire ed aspettarti che non tutto andrà come vuoi, ma basta capire che sei parte di quella macchina."
Il giornalista ha poi chiesto una sorta di auto-valutazione al coach, che ha risposto – come suo solito – in maniera piuttosto sincera: “Vorrei aver avuto l'esperienza che ho ora. Penso che avrei potuto fare un lavoro decisamente migliore. So che avrei potuto. Avrei potuto gestire tutto più facilmente Ma non l'ho fatto! Ho passato ciò che ho passato, ma nel mio cuore so che sarebbe potuta andare meglio. Potevo fare un lavoro migliore, ma comunque non ritengo di aver fatto un cattivo lavoro. Sicuramente avrei fatto tante, tante cose in maniera diversa. Sia dentro al campo che a livello personale, se solo avessi avuto più esperienza. Ma, ripeto, non sono andato male”.

Una delle domande più particolari è stata quella su un retroscena noto a parecchi addetti ai lavori: prima di accettare la panchina di Cleveland, Blatt fu contattato da Steve Kerr per un posto da assistente a Golden State. “Ci ho pensato tanto, sì, a come sarebbe potuta andare. Ma penso che chiunque al posto mio avrebbe fatto lo stesso. Se qualcuno avesse potuto garantirmi di lavorare con Steve per un anno o due per poi diventare comunque head coach, probabilmente avrei detto di sì. Ma non è stata solo una questione di voler essere in cima [come suggerito da Barshad, ndt], è stato il voler continuare a fare quello che avevo fatto per vent'anni: essere capo allenatore”.
Al suo arrivo in Ohio, David Blatt era convinto di trovarsi alla guida di una squadra in piena ricostruzione. Poi è arrivata la decisione di James di tornare a casa, ed in quattro e quattr'otto l'obiettivo è diventato l'anello. A riguardo, il coach ha comunque giustificato le scelte della dirigenza, a suo modo: “Avrei voluto fare uno o due anni senza LeBron per adattarmi, trovare la misura ad ogni cosa. Ma cosa sono, pazzo? Avrei potuto dire di no ad avere Lebron James in questo momento?”
Sul rapporto personale col re, però, Blatt ha sorvolato completamente: “Non è importante. Non penso sia importante. Dirò questo: ho avuto l'opportunità di allenare il miglior giocatore del mondo, e non molte persone possono dire lo stesso”.

La chiacchierata è poi tornata sul passato di Blatt, a suo malgrado – girando l'Europa per due decenni buoni – spettatore di tanti mutamenti geo-politici del vecchio continente. “Ho vissuto ogni tipo di evento, ho visto cambiare faccia a tanti paesi. Questo non è accaduto solo a Treviso, dove la cosa più eclatante era un cappuccino fatto non perfettamente. Anche se una volta un tifoso dell'Olimpia Milano è corso in campo urlandomi 'ebreo di merda!'. Non ci è andato leggero!”.
Ora, il coach è impegnato in Turchia, ancora alle prese con la durissima repressione di Erdogan contro gli autori del tentato colpo di stato militare. “Le persone mi chiedono se io sia spaventato o preoccupato qui. Ma ho fatto questa vita per più di trent'anni. E non puoi vivere nella paura. Questa è la mia risposta”.

Nonostante la reticenza, però, da buon giornalista avido di risposte, Amos Barshad è tornato all'attacco sul discorso LeBron James: è allenabile? È stato lui a licenziare Blatt? “Ehi, ascolta. Quanti titoli ha vinto? È ovvio che sia allenabile. Posso farti trenta nomi di coach NBA che vorrebbero allenarlo in questo momento. Ma non penso che sia stato lui a licenziarmi. Ovviamente non è stato lui. Non è quello che fa queste cose. È stata una decisione del management. Non mi piace parlare nel dettaglio del mio rapporto con James perché i media spesso hanno descritto la mia esperienza a Cleveland come una faccenda esclusiva tra me e lui. Ma per me non è assolutamente stato così”.
Dopo divese domande sul suo passato oltreoceano, però, anche il pacato David Blatt perde per un attimo la pazienza: “Capisco che vogliate arrivare al cuore delle cose, ma quello è il passato. Ed ho deciso di lasciare certe cose nel passato. Quel che è stato è stato. Ho tanti ricordi e tanti pensieri che ora sono lontani da me. Ho altre cose da fare, è quello che ho scelto”.
E questo è forse uno dei più grandi meriti di David Blatt oggi: aver deciso sempre con la sua testa, con l'orgoglio e l'onestà dei più grandi.