"Vinceremo noi, in sei o sette gare". Così parlò Damian Lillard, alla vigilia del primo turno di playoffs della Western Conference della scorsa stagione, quando i suoi Portland Trail Blazers si apprestavano a sfidare al primo turno i lanciatissimi Golden State Warriors, reduci da una regular season da 67 vittorie e 15 sconfitte. Lo scontro della postseason finì poi con uno sweep in favore dei californiani, ma le parole di Lillard, leader di Rip City, erano servite a caricare un ambiente che viveva forse con rassegnazione la seconda sfida consecutiva alla postseason contro gli uomini di Steve Kerr. 

Damian Lillard. Fonte: Sam Forencich/Getty Images
Damian Lillard. Fonte: Sam Forencich/Getty Images

E anche nella stagione che sta per prendere il via, sarà Lillard il leader tecnico ed emotivo della franchigia dell'Oregon, a caccia di un posto nell'élite della Western Conference, che fa registrare tuttavia uno scarto importante tra le ambizioni del suo numero zero e le reali possibilità del roster a disposizione di coach Terry Stotts. Salutato ormai LaMarcs Aldridge da due stagioni, affidate le chiavi della squadra al nativo di Oakland, Portland si ritrova nella difficile situazione di chi è competitivo per arrivare ai playoffs ma non è ancora in grado di fare l'ultimo salto per diventare una vera contender. Anzi, data la competitività dell'Ovest attuale, una moneta per la postseason non è neanche garantita, come dimostrato peraltro dall'ottavo posto ottenuto (con il fiatone, a spese dei Denver Nuggets) lo scorso anno. Eppure Lillard continua a pensare in grande, al titolo NBA, al punto da aver dichiarato recentemente di non avere intenzione di unirsi ad alcun superteam, bensì di voler vincere in maglia Blazers. Impresa per il momento complicata, nonostante la Rip City allenata da Stotts sia una delle squadre più gradevoli da vedere in attacco nell'intera lega, complice l'apporto di un secondo violino di lusso come C.J. McCollum. Se Lillard è l'uomo delle accelerazioni fulminee, dei parziali messi a referto quasi da solo, delle triple senza coscienza alla Steph Curry, il Most Improved Player della stagione 2016 è il suo perfetto sparring partner. Sempre sotto controllo, McCollum forma insieme al suo playmaker uno dei migliori backcourt della lega, potendo unire doti di realizzatore e di passatore, di giocatore di pick and roll e di uomo da isolamenti. Insomma, un mix letale per le difese avversarie, come dimostrato dalla fantastica gara-1 disputata lo scorso anno alla Oracle Arena proprio contro i Warriors. Una prestazione combinata che tuttavia non bastò ai Blazers per prendere il controllo della serie, e che anzi si rivelò l'inizio di un'eliminatoria tutta in salita per i gemelli del canestro trapiantati in Oregon.

Damian Lillard e C.J. McCollum. Fonte: Cameron Browne/Getty Images
Damian Lillard e C.J. McCollum. Fonte: Cameron Browne/Getty Images

I nuovi Portland Trail Blazers, quelli della stagione 2017-2018 somigliano in realtà ai vecchi, perchè il general manager Neil Olshey non è riuscito a ingaggiare free agents in grado di spostare gli equilibri, stretto nella morsa di un salary cap già corposo. Ecco perchè le novità principali da ammirare sul parquet del Moda Center sono rappresentate dai rookies, dal lungo Zach Collins all'ala Caleb Swanigan, entrambi già intravisti nell'ultima Summer League (il primo in ombra, il secondo in gran spolvero). Il resto del roster è praticamente identico a quello dello scorso anno, se si eccettuano un paio di movimenti di retroguardia, come quelli relativi ai free agents Anthony Morrow (tiratore) e Archie Goodwin (altra shooting guard di atletismo, ex Phoenix Suns). Nelle intenzioni di Olshey, e forse anche in quelle di Stotts, Morrow dovrebbe prendere il posto del giovane Allen Crabbe, volato a Brooklyn per motivi di spazio salariale, giocatore importante della Portland dell'ultimo biennio, soprattutto in uscita dalla panchina. Ma la posizione che i Blazers intendevano migliorare era quella di small forward: di qui i tentativi di provare a reclutare Carmelo Anthony, poi finito agli Oklahoma City Thunder. Poche in realtà le chances mai avute da Rip City di aggiudicarsi Melo, causa difficoltà nel reperire contropartite tecniche adeguate e gradite ai New York Knicks. Già, perchè se Lillard e McCollum sono al top dell'NBA nei rispettivi ruoli, ciò che rimane di Portland non è all'altezza delle aspettative. Al-Farouq Aminu ed Evan Turner sono infatti ottimi giocatori (molto diversi l'uno dall'altro, intensità contro talento), ma non uomini in grado di fare la differenza su entrambi i lati del campo. Discorso simile per i lunghi, in attesa di capirne di più su Collins e Swanigan, reparto in cui la principale speranza è rappresentata da Jusuf Nurkic, giunto in Oregon lo scorso inverno da Denver per Mason Plumlee. Centro tecnico e allo stesso tempo fisico, Nurkic ha fatto vedere il meglio di sè proprio in maglia Blazers, prima di infortunarsi alle porte dei playoffs. I dubbi sul suo conto rimangono quelli relativi alla continuità e alla capacità di mantenere i nervi saldi in ogni situazione: riuscisse a fare il salto di qualità atteso, diventerebbe automaticamente uno dei giocatori più interessanti nel suo ruolo. 

Jusuf Nurkic contro Dario Saric. Fonte: Sam Forencich/Getty Images
Jusuf Nurkic contro Dario Saric. Fonte: Sam Forencich/Getty Images

Anche perchè Ed Davis e Meyers Leonard non forniscono adeguate garanzie di rendimento. Rimbalzista e lungo fisico il primo, tiratore poco atletico il secondo, mentre la posizione di numero quattro (in un NBA che sembra in realtà prescindere da una simile catalagazione) è affidata alternativamente a Mo Harkless e Noah Vonleh, giocatori di ruolo nelle rotazioni di Stotts. Chiudono il roster il piccolo playmaker Shabazz Napier, eroe di UCONN nel torneo NCAA del 2014, il suo compagno di posizione Jake Layman, al secondo anno, e Pat Connaughton, sottodimensionato per giocare continuativamente in una lega come l'NBA. L'obiettivo dei Blazers rimane l'accesso ai playoffs, quello di Lillard il titolo (e magari il riconoscimento di All-Star): ambizioni diverse per una franchigia che dovrà - di nuovo - scegliere cosa essere.