Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino agli anni '90, il confine italiano a nordest divideva la nostra Penisola da un mondo nettamente diverso dal nostro Occidente: era la Jugoslavia, federazione comunista guidata dall'ex partigiano croato Tito, dove la vita seguiva i ritmi del Partito Comunista, ma che oggi non esiste più.

Durante e dopo gli orrori della guerra nei Balcani conclusasi vent'anni fa, infatti, gli Stati che si erano coalizzati sotto la figura del controverso leader slavo, dopo la sua morte iniziarono a farsi la guerra tra loro, spinti da motivi etnici e razziali. E con la Federazione si sgretolò anche la Nazionale di calcio jugoslava, forse non una delle più blasonate dalla storia ma con un trascorso che vale la pena ricordare.

La sua prima comparsa nel panorama internazionale fu nel 1920, alle Olimpiadi di Anversa: la sconfitta 7-0 con la Cecoslovacchia fu una vera batosta, ma non ostacolò il suo percorso. Dieci anni dopo, infatti, la squadra dell'allora Regno di Serbi, Croati e Sloveni partecipò alla prima edizione della Coppa del Mondo, in Uruguay: un'altra pesante sconfitta, per 6-1 contro i padroni di casa in semifinale, ma anche il terzo posto nel torneo. Rimarrà per sempre il suo miglior piazzamento nella competizione.

Prima di poter festeggiare altri successi, la Jugoslavia dovette attendere la fine della Seconda guerra mondiale. Poi, nel 1960, ecco gli Europei in Francia, con la semifinale contro i padroni di casa che rappresenta una sorta di “Italia-Germania 4-3”, per numero di gol ed emotività: finirà 5-4 per la squadra del regime comunista, che in finale si dovette arrendere all'URSS.

Il cammino europeo della Jugoslavia passò anche per l'Italia: nel trofeo continentale del 1968 ospitato nel nostro Paese, infatti, il cammino verso la finale fu trionfante. Germani Ovest, Francia e Inghilterra si arresero ai “titini”, mentre all'Olimpico di Roma rimasero solo gli Azzurri da battere: la partita si giocò due volte, poiché all'epoca non erano previsti i rigori a termine dei 90 minuti e la prima finì 1-1. Il bis vide la vittoria della squadra guidata da Facchetti, ancora oggi unico successo agli Europei.

Questa finale è storicamente interessante: fino al 1975, infatti, i territori di Trieste, Istria e Dalmazia erano contesi dai due Stati, tant'è che l'idea di Tito era di ottenere anche Gorizia. Tutto fu deciso dal Trattato di Osimo quell'anno, firmato dopo una fitta trattativa segreta tra le parti: i territori del litorale adriatico, oggi in Slovenia e Croazia, passarono sotto la Federazione, mentre Trieste passò definitivamente all'Italia e le tensioni internazionali cominciarono ad allentarsi. L'idea, quindi, che qualcosa si sia giocato sul campo di calcio potrebbe essere un tassello per ricostruire quell'accordo ancora avvolto dal mistero.

Tra le partite di cui fu protagonista, ce n'è una che non è una finale ma poco ci manca: il grandissimo Pelé volle giocare proprio contro la Jugoslavia la sua ultima partita in verdeoro. La partita fu giocata il 18 luglio 1971 al Maracanã di Rio de Janeiro, con oltre centomila spettatori, e finì 2-2.

Gli anni seguenti videro la selezione balcanica partecipare a numerose edizioni dei Mondiali ed Europei, fino al 1992: nonostante si fosse qualificata per la fase finale, la Jugoslavia venne esclusa dalle competizioni internazionali dealla FIFA e UEFA a causa della guerra civile, che proprio in quell'anno divampava sempre più. Lo stesso anno giocò la sua ultima partita, un'amichevole contro l'Olanda persa 2-0: la guerra si portò via una delle compagini più interessanti del calcio sudeuropeo, frantumandola in 6 diverse Nazionali.

Oggi la zona dei Balcani continua a essere una pentola in ebollizione: i contrasti politici si riflettono su quelli calcistici, come la situazione del Kosovo che al momento si trova in limbo sia con l'Unione Europea che con la UEFA. E, come hanno tristemente insegnato i massacri della stessa ex-Jugoslavia, dietro alle milizie paramilitari spesso c'erano frange estremiste di ultras (come quelli della Stella Rossa di Belgrado) pronte a passare dallo stadio al campo di battaglia: il lavoro per far convivere questi popoli, almeno sul campo di calcio, sarà lungo ma servirà per il futuro. Per costruire un'Europa che sappia vivere insieme, anche davanti a un pallone.