Quando, poco più di tre anni fa, il Bayern Monaco annunciò l'ingaggio di Pep Guardiola, la notizia fu accolta con stupore da addetti ai lavori e appassionati di calcio internazionale. Si pensava che il tecnico catalano, reduce da un anno sabbatico vissuto a New York dopo i trionfi con il Barcellona, avrebbe scelto la Premier League (Chelsea, United e City le pretendenti) e non la Bundesliga per il suo ritorno in panchina. Un campionato senza stimoli nè concorrenza si diceva, un ambiente particolare, autarchico per storia e tradizione, che negli ultimi vent'anni aveva visto alternarsi alla sua guida solo due allenatori stranieri, Giovanni Trapattoni e Louis Van Gaal. 

La prima difficoltà cui l'uomo dei record del Camp Nou si è trovato ad affrontare è stato raccogliere l'eredità di Jupp Heynckes, vero e proprio santone in terra bavarese, congedatosi con un triplete come regalo d'addio. Vincere la Champions League è così divenuto un obbligo per Pep, cui i successi in Bundesliga e nelle coppe nazionali sono sempre stati considerati dovuti, in una sorta di allenamento per tornare sul tetto d'Europa. Eppure, già la prima (e unica) soddisfazione internazionale, la Supercoppa Europea alzata al cielo di Praga nel 2013 battendo ai rigori il Chelsea dell'avversario Mourinho, aveva lasciato intravedere le difficoltà che quella nuova versione del Bayern Monaco avrebbe incontrato. All'inizio Guardiola non ha cambiato molto della squadra di cui gli avevano dato le chiavi, al punto di rammaricarsi di aver giocato la partita cruciale della sua stagione d'esordio - la semifinale di ritorno all'Allianz Arena contro il Real Madrid di Ancelotti - con Mario Mandzukic centravanti e senza un falso nueve per avere gli spazi necessari allla migliore espressione del suo gioco. Nel 2014, via il croato, la dirigenza - sempre attenta a lavorare con un certa indipendenza di giudizio - gli presentò in attacco Robert Lewandowski, strapagato al Borussia Dortmund e impossibile da tenere in panchina. Con il polacco a disposizione, Guardiola ha dovuto accettare l'idea di aver in campo una punta nel vero senso del termine, ancorchè di grande movimento, ma non ha rinunciato al suo calcio, fatto di palleggio e pressing alto.

Ecco che il tiki-taka di Barcellona si trasferì, complice l'arrivo di Luis Suarez (e Luis Enrique) in blaugrana, dalla Catalogna alla Baviera, dove non è mai stato troppo amato, ma vissuto come un inutile orpello a un gioco semplice ed elementare come quello del calcio. Franz Beckenbauer non ha infatti mai mancato di sottolineare come quel tipo di gioco lo annoiasse ("non si può pensare di entrare in porta con il pallone", una delle sue stoccate avvelenate), in sintonia con tutto l'ambiente, prontissimo ad attaccare il tecnico straniero al primo passo falso, puntualmente ripresentatosi anche nel 2015, quando fu Leo Messi a mandare k.o. quella che è stata con ogni probabilità la miglior versione di un Bayern spagnoleggiante. Il resto è storia recente, con le strade di allenatore e società tornate a dividersi molto prima dell'annuncio di Guardiola al City (risalente a dicembre, ma l'accordo era stato ratificato già dall'estate). Il catalano non ha tuttavia smesso di insegnare calcio alla sua maniera, accentuando la propria vena trasformista, prima passando a una difesa a tre senza difensori di ruolo, poi cambiando di posizione alcuni giocatori chiave sotto la precedente gestione (Alaba e Lahm, solo per fare due nomi). Il tutto non per un capriccio personale, ma nella convinzione che fosse l'unico modo per dare i crismi della definitività a un progetto tattico mai davvero compiuto. Alcune esibizioni del Bayern di Guardiola sono state uno spettacolo per gli esteti del calcio, ma mai il tecnico catalano è sembrato aver convinto tutti - dallo spogliatoio alla stampa - che il suo gioco fosse un'arma vincente, piuttosto che una a doppio taglio. L'esclusione di Thomas Muller dalla semifinale contro l'Atletico di una settimana fa - come Mourinho al Real, Pep non ha mai superato le colonne d'Ercole delle migliori quattro d'Europa - è stata vissuta come un insulto da tutto il calcio tedesco e dall'ambiente bavarese in particolare, che ora si appresta ad accogliere un altro allenatore straniero come Carlo Ancelotti, più duttile di chi lo ha preceduto ma pur sempre un estraneo nel mondo autoreferenziale del Bayern.