Nella serata di domenica, appena terminata la gara, l’autore di questo articolo si è permesso di commentare in un brevissimo post su Facebook quanto evinto dal Gran Premio del Messico. Senza entrare troppo nello specifico, in quella sede si è deciso di utilizzare l’espressione “storia della Formula 1”,  con l’intenzione di dare ancor più adito su quanto scritto.

In seguito, la mente si è arrovellata sul significato intrinseco della parola “storia”, termine molto spesso usato senza che se ne conosca realmente la definizione. Nel girovagare tra le varie fonti, si è trovata interessante la seguente espressione: “Esposizione ordinata di fatti e avvenimenti umani del passato, quali risultano da un’indagine critica volta ad accertare sia la verità di essi, sia le connessioni reciproche per cui è lecito riconoscere in essi un’unità di sviluppo”.

Ma quando un fatto diventa storico? Solo dopo anni dal fatto stesso? O lo è già nel momento in cui avviene? E in tal caso, come si fa a ritenerlo di portata “storica”?

Tutte domande con le quali chi vi scrive si è confrontato prima della redazione di questo articolo, perché quanto acclarato all’Autodromo Hermanos Rodriguez di Città del Messico non è stato propriamente qualcosa di normale, ma un punto della storia della Formula 1, senza che vi sia bisogno di aspettare i prossimi anni per accertarlo.

Il motivo? Magari ce ne fosse solo uno. Potremmo cominciare dal fatto che Lewis Hamilton è diventato campione del mondo per la quarta volta in carriera, cosa successa solo a pochissimi grandi del passato e non solo, partendo da Juan Manuel Fangio, passando per Alain Prost e Michael Schumacher, fino ad arrivare a Sebastian Vettel. Ed è proprio il tedesco della Ferrari, un motivo in più, a rendere il traguardo raggiunto dal ragazzo di Stevenage ancor più di rilievo. I due hanno ingaggiato una rivalità nella stagione in corso che ha fatto impazzire gli appassionati di questa competizione, riportando in auge un dualismo tra piloti e macchine che mancava da troppo tempo. Aggiungiamo anche che, oltre a tutto ciò che è già tanto, Hamilton è divenuto il britannico più vincente della massima competizione automobilistica e non era facile, visto l’enorme contributo sia in termini di piloti, sia di tecnica che la terra d’Oltremanica ha fornito alla Formula 1. Il tutto condito dall’aver raggiunto e superato il record delle pole position, prima di Ayrton Senna, poi di Michael Schumacher, diventando il nuovo pole man di riferimento per la competizione.

Ma se la storia fosse solo una questione di numeri, sarebbe ragioneria. In un mondo dove l’analisi dei dati è fondamentale sia per i tecnici, ma anche per chi questa competizione la vuole “capire”, la componente umana è quella che troppo spesso non viene presa in considerazione, a torto secondo il parere di chi vi scrive.

Infatti, Hamilton il pilota, da un paio d’anni a questa parte è all’apice della sua forza. Questo perché, nel corso delle stagioni, ha accoppiato al suo straordinario talento una bella dose di esperienza, che mischiate insieme hanno formato un pilota pressoché perfetto, costante, capace di affondare il colpo quando necessario o al più per togliere le castagne dal fuoco, come dimostrato nel bellissimo duello con quel Fernando Alonso al quale nel 2007, anno d’esordio dell’inglese, non ha ceduto un millimetro, esasperando lo scontro intestino in Mclaren, con buona pace di Ron Dennis e company, dimostrando sin da subito che il talento c’era.

Ma come successo ai migliori, pagando dazio su alcuni errori di gioventù, di eccessiva foga e di un pizzico di stronzaggine, Hamilton è diventato un mostro di guida, superando il livello con cui si era preso quel dannato campionato del 2008, anno in cui forse non lo meritava del tutto, ma si sa, con i se e con i ma non si combina nulla, figuriamoci vincere un mondiale di Formula 1.

Poi un periodo di calma, in cui un po’ tutti sono stati spettatori dell’epopea della Red Bull, in cui forse essere di fronte al fatto compiuto di essere “sconfitti”, anche se non direttamente, ha fornito una chiave di lettura diversa al pilota inglese. Anche se, probabilmente, nel 2010 che si è concluso con la funesta gara di Alonso e della Ferrari a favore di Vettel, pochi si sono accorti che il primo sconfitto di quel campionato fu proprio l’inglese. Infatti, considerando che in quel campionato arrivò con soli 16 punti di distacco dal leader, quel doppio zero in classifica a Monza e Singapore dovuto ad errori di “eccesso”, probabilmente ha contribuito a far capire che oltre al manico ci vuole anche qualcosa in più, in particolare in un anno in cui ben quattro piloti erano ancora in lotta almeno matematicamente all’ultima gara.

Per non parlare dell’epopea vincente della Mercedes nell’era turbo-ibrida, in cui l’inglese il primo avversario ce lo ha avuto in casa. Prima vittorioso, poi sconfitto da quel Nico Rosberg che probabilmente più ha contribuito alla crescita del suo compagno rivale, perché in quelle situazioni o maturi o esplodi. Nonostante ciò, in quel periodo, Hamilton si è dimostrato autore di qualche pecca. Ben inteso, nulla di quanto fatto precedentemente, ma complice anche qualche problema di affidabilità, non sempre è riuscito a raccogliere quanto avrebbe meritato.

Tutto questo si è convogliato nell’Hamilton monstre che abbiamo avuto il piacere di vedere quest’anno, che ha avuto il merito di mettersi a disposizione della squadra quando sembrava che la Ferrari fosse più in palla, e non era solo una sensazione, ponendosi in opposizione al personaggio superstar che si è creato al di fuori del circus. Inoltre, al netto dell’espressione del suo immenso talento, rimasto intatto come dimostrato ad esempio nella pole position conquistata nel Gran Premio del Canada, che a modesto parere di chi vi scrive, rimane la più bella del mondiale, mai come quest’anno la costanza di rendimento è stato il suo punto di forza. E’ vero, il tutto con l’aiuto di una Mercedes che non ha mai peccato di inaffidabilità, a differenza dei diretti concorrenti, capitalizzando senza rischiare troppo quando le esigenze di classifica erano più importanti delle corone d’alloro, come accaduto in Malesia ad esempio e soprattutto nella gara di ieri.

Il tutto condito da quel sano e piacevole rispetto nei confronti degli altri, a cominciare dal suo diretto concorrente. Si sa, in questa competizione non si può certo parlare di amicizia, figuriamoci, ma sicuramente le pacche sulle spalle con Vettel, l’abbraccio dell'altroieri nel post gara, sono sintomo della riconoscenza di chi si è battuto, che avvalora ancora di più quanto di buono conquistato in questa stagione.

A valle di tutto questo, la conclusione dell’autore di questo articolo, è che il 2017 è stato forse l’anno di maggior livello espresso da Lewis Hamilton, diventato un vero mostro non solo del volante, ma anche della Formula 1, nella quale per vincere, non basta solo il talento. Perché quella bella e dannata competizione, è fatta anche di numeri, maledetti numeri, con i quali bisogna rapportarsi e per i quali vengono ricordati ancora oggi gente come Fangio, Stewart, Senna, Prost, Schumacher e che denotano il livello di gente come Vettel e, per l’appunto, Hamilton.

Siamo di fronte dunque ad un pezzo di storia, quella con la esse maiuscola, della Formula 1 e sentiamoci fortunati che questa fase la possiamo vivere direttamente e non solo sfogliando qualche librone o ripescando vecchi video. Onore al merito a Lewis Hamilton, uomo di riferimento di quello che consideriamo la competizione più bella del mondo.