Muse, il ritorno di una band che rinunciò alla perfezione per amore delle folle
I Muse (photo: billboard.com)

"Il migliore.. devi essere il migliore, devi cambiare il mondo; e usare quest'opportunità per essere ascoltato" (Butterflies and Hurricanes, Muse)

Che la band capitanata da Matthew Bellamy sia diventata un fenomeno musicale di massa è ormai cosa risaputa. Tanto che il tifoso medio-informato, quello cui è sufficiente attingere alla lista di canali in chiaro del digitale terrestre per erudirsi, e che almeno una volta alla settimana impegna tre ore e venti minuti alla visione di Quelli che.. , molto probabilmente conoscerà bene i volti del power trio inglese che si è reso protagonista di uno dei siparietti più tragicomici della trasmissione succitata. Frangente in cui un'imbarazzata e forse sorniona (chi può dirlo?) Simona Ventura, a un improvviso scambio di ruoli dei componenti del gruppo, si è ritrovata ad intervistare in maniera incespicosa il batterista Dominic Howard che in quel momento vestiva ironicamente i panni del cantante Matthew, in un ingenuo qui pro quo dal sapore psicodrammatico.

Quello che molti neofiti del fanatismo museiano non sanno è che il gruppo in questione abbia a suo tempo attraversato le più disparate transizioni musicali per approdare alla definizione condivisa di symphonic rock di stampo elettronico. Già, perché i Muse da un paio di album a questa parte sono la band che mette in accordo amanti del pop italiano e fautori del metal melodico, estimatori della classica e patiti della dubstep, "tamarri" e "rockettari". Non c'è da stupirsi quindi se nel tentativo di soddisfare gli entusiasmi dei fan e gli stomaci dei punti vendita , i ragazzi della contea di Devon abbiano dovuto ricorrere ai più prestigiosi e capienti stadi delle città ospitanti per esibirsi, rispettivamente il 28 e 29 giugno a Torino, e il 30 luglio a Roma. Tre date che, dopo l'uscita della loro ultima fatica a Ottobre 2012, The Second Law, hanno tutta l'aria di un'energica riaffermazione della band sul piano live internazionale. 

E quando l'iter evolutivo di Chris, Dominic e Matthew sembra ormai giunto all'ultimo stadio della metamorfosi, c'è chi si   domanda se quello uscito dal bozzolo sia veramente l'aspetto sonoro definitivo della line-up.

Perché i Muse di facce ne hanno cambiate tante, come tante sono state le persone rimaste folgorate o scottate dalle loro trasformazioni. A cominciare dal loro esordio come rock band dark (di cui Origin of Simmetry e Absolution sono due pietre miliari per ricercatezza e raffinatezza compositiva, quasi interpretando esegeticamente le parole della splendida Butterflies and Hurricanes), per poi piombare ad un più easy listening pop rock elettronico (Black Holes and Revelations, il disco che ha condizionato l'andamento dei successivi lavori e che ha sublimato la fama della band a livello mondiale tramite una strizzatina d'occhio alla saga cinematografica di Twilight, fa ancora storcere il naso ai fan più accaniti), il gruppo rock britannico è passato attraverso una miriade di generi tutti imparentati fra loro, come neoprogressive-alternative-space rock band, tanto per citare alcune definizioni.
 

(The Resistance, quinto album dei Muse in ordine cronologico, fu la naturale conseguenza delle sperimentazioni già avvertibili in Black Holes and Revelations, e valse alla band un doppio disco di platino in Italia ed un Grammy Award come migliore album rock del 2009)


Ventun anni di evoluzioni ed attività live insomma che, nel bene o nel male, hanno segnato i membri del gruppo rock, forgiandone le già di per sé ottime doti tecniche e sperimentali, caratteristiche in genere proprie dei migliori turnisti (nonché probabile motivo alla base della loro idiosincrasia per il playback, artificio invece caro alle trasmissioni televisive italiane).

E se è vero che la chiave del loro indiscusso ma discusso successo planetario è da attribuire al recente approdo all'elettronica di facile seduzione prog (che suona come i Queen, ma un po' di meno) più che al loro trasformismo eclettico (che somiglia a quello dei Linkin Park, ma un po' di più), è anche vero che in risposta al lamento nostalgico di chi li preferiva all'apice del perfezionismo stilistico di inizio anni zero, viene in aiuto la famosa frase di Paul Valéry il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello di una volta. E i tre ragazzi di Teignmouth rimangono comunque fra i migliori performer live della loro generazione: sempre un valido motivo per andarli a vedere, specie se non lo si è mai fatto.

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