Lana del Rey - Lust for Life, la recensione di Vavel Italia
La copertina di Lust for Life - foto di genius.com

Dopo aver scritto un capolavoro come Ultraviolence (2014) e pubblicato, a un solo anno di distanza, il passo falso Honeymoon, era lecito aspettarsi di tutto dal quarto album di Lana del Rey (quinto se si conta l'EP Paradise): nondimeno, il sorriso a trentadue denti che campeggia sulla copertina del nuovo Lust for Life lascia intendere una dipartita dalla proverbiale malinconia sulla quale la cantante americana ha costruito i propri successi e la propria immagine.

In realtà, l'evoluzione in questo senso è parziale, più presente nell'artwork che nei brani: fatto salvo alcuni episodi in cui effettivamente la Del Rey riesce a proporre temi e canzoni più positive (Change, Groupie Love, la title-track), nella maggior parte del disco l'artista non riesce a distaccarsi dal mood malinconico che la caratterizza; del resto, la sua voce (quasi) sempre trascinata e dalle sfumature retrò non aiuta di certo a veicolare messaggi pieni di spensieratezza e leggerezza, e anzi rende molto di più in pezzi che trasmettono l'opposto (13 Beaches, Cherry, Heroin).

Da un punto di vista prettamente musicale, difficile aspettarsi un disco diverso nelle atmosfere e nelle melodie, anche se in realtà batterie hip hop permeano l'intero disco e, inoltre, compaiono alcuni brani che presentano una certa dose di "sperimentazione", come nella beatlesiana Tomorrow Never Came - non a caso realizzata in collaborazione con Sean Ono Lennon, figlio di John - o in Summer Bummer, anch'essa un duetto (con A$AP Rocky e Playboi Carti), caratterizzato da sfumature trap. I pezzi migliori, tuttavia, sono quelli che maggiormente si rifanno al passato della cantautrice, vale a dire le già citate Heroin e 13 Beaches, In My Feelings e Get Free, la quale, nonostante un giro armonico palesemente preso in prestito da Creep dei Radiohead, chiude alla perfezione l'album. Per niente riusciti sono, invece, i pezzi When the World Was at War We Kept Dancing e Beautiful People Beautiful Problems (un altro featuring, con Stevie Nicks, poco significativo), che rischiano di far precipitare un lavoro comunque troppo lungo, data la somiglianza tra le varie tracce.

Tirando le somme, Lana Del Rey pubblica il suo disco che, finora, più si avvicina ad Ultraviolence, sia nei contenuti sia nella qualità. Tuttavia, resta l'impressione che riducendo l'album di quattro o cinque brani, questo risulterebbe molto più fruibile ed eviterebbe che l'attenzione dell'ascoltatore cali da metà in poi. In ogni caso, una prova positiva da parte della cantante newyorkese.

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