Anacronistico, tradizionalista fino al confine del parossismo, ma terribilmente affascinante, al punto che nessuno - nemmeno nel tempo in cui il Dio denaro impera e divide - si sente autorizzato a sfidare quell'aureola mistica che emana. È il torneo in cui tutti si deve giocare in rigoroso abito bianco, con buona pace degli sponsor. È il Torneo che tutti, fin dalla prima volta che prendono in mano una racchetta, sognano di vincere. Signore e signori, benvenuti a Wimbledon!

Di acqua sotto i ponti, da quando nel lontano 1877 Spencer Gore firmò in tre set la prima edizione dei "Championship" battendo in tre set William Marshall, nè passata tantissima. Anno dopo anno, edizione dopo edizione, tutti i più grandi interpreti del Gioco della racchetta hanno lottato, sofferto, gioito e pianto sulla verde erba degli impianti di Wimbledon, contribuendo all'affermarsi di una leggenda che si tramanda di capitolo in capitolo. E così, mentre come un monumento imperturbabile al trascorrere del tempo, i Championships rimanevano al centro della scena, tutto attorno molte cose sono cambiate.

In quasi 140 anni di storia, il Centre Court (quello con le C in maiuscolo e in grassetto spesso, perchè così vuole l'antonomasia) ha visto il tennis dei pionieri; è stato spettatore ammirato delle gesta di Bill Tilden e di Renè Lacoste, di Fred Perry e Donald Budge; cantato la leggenda di Rod Laver, è stato testimone degli epici duelli fra Borg e McEnroe, cullato le sette bellezze di Pete Sampras e Roger Feder; e ancora, palpitato per l'enfant du pays Andy Murray, che finalmente nel 2013 ha riportato a casa il trofeo che mancava dal 1936, ultima affermazione di Fred Perry.

Ma su quel prestigioso palcoscenico, si sono esibite anche le etoiles al femminile: la Divina Suzanne Lenglen, che ha incantato tutti per l'infinita grazia del suo gioco e si è portata a casa per quattro volte il Trofeo; Maureen Connolly, prima donna a centrare il Grand Slam (correva l'anno 1953), splendida cometa troppo presto eclissata da una malattia incurabile che l'ha vinta a 35 anni; Althea Gibson, prima donna di colore a vincere una prova dello slam (Parigi 1956) e poi due volte trionfatrice sul verde di Londra; Billie Jean King e Martina Navratilova, la regina assoluta dalle parti di Church Road con nove vittorie; Margareth Smith Court e Chris Evert; Steffi Graf, la dominatrice degli anni '90; la stella Maria Sharapova, che ha cominciato a brillare nel 2004, allorchè appena diciassettenne sorprese Serena Williams. La donna dei 20 titoli Slam, la grande favorita dell'edizione 2015, pronta a riprendersi il trono che aveva lasciato nel 2012, su cui si sono sedute dapprima Marion Bartoli - il brutto anatroccolo diventato cigno nell'occasione più importante della sua carriera tennistica - e Petra Kvitova. Ma a guardare tutte dall'alto della lista c'è Maud Watson: la Storia la colloca in apertura dell'Albo d'oro, anno di grazia 1884. A lei l'onore eterno di essere stata la prima vincitrice in assoluto dei Championships al femminile.

Ridurre il mito dei Championships alle sole gesta dei gladiatori in battaglia nell'arena verde, però, sarebbe troppo poco. Vorrebbe dire non parlare del silenzio tombale e catartico con cui il pubblico ammira gli scambi dei tennisti. L'immancabile coppa di fragole e panna. La pioggia dispettosa, così romanticamente british. La Regina in visita. Il Royal Box.

Pezzi di un mosaico meraviglioso, Wimbledon.